La NATO tra eserciti hi-tech e società post-eroiche

di Krzysztof Kubiak *

(traduzione di Ciro Paoletti)

Gli autori che hanno toccato la questione delle sfide affrontate dall’Alleanza Atlantica di solito trattano questo argomento in modo “tecnico”.

Discutendo le disposizioni prese dai vertici dell’organizzazione l’uno dopo l’altro, specificano le esigenze articolate poi, contemporaneamente suggeriscono che l’incontro sarà identico ai precedenti e servirà preparare la NATO ad affrontare ciò che il futuro porta con sé.

Le questioni della futura esistenza dell’organizzazione, radicata in modo esplicito nel periodo della Guerra Fredda, e delle sfide strutturali che si devono affrontare nelle attuali condizioni d’un cambiamento epocale dell’organizzazione nell’ambito della sicurezza globale, sono molto raramente argomento di pubblico dibattito.

Ma sarebbe il caso di farlo, ed è mia intenzione farlo qui, sulla base del presupposto che l’Alleanza Atlantica si trova nella sua fase cruciale e che entro i prossimi anni sarà chiaro se rimarrà una organizzazione efficace e in grado di azioni efficienti per costruire sicurezza intorno a sé, o se non sia un altro “circolo di discussione”, dotato di strumenti militari, ma incapace di utilizzarli così da ottenerne dei risultati.

Per lungo tempo l’Alleanza ha garantito pace e stabilità in Europa ed è stata uno strumento assai efficace per mantenere un equilibrio strategico globale del potere. Non c’è molto esagerazione nella dichiarazione che, divenendo parte della filosofia di “distruzione assicurata reciproca” (Mutual Assured Destruction), la NATO ha avuto un ruolo fondamentale nella prevenzione dell’”Armageddon nucleare.”

Alla fine della Guerra Fredda l’Alleanza Atlantica era ormai un’organizzazione politica e militare relativamente coesa, la cui gestione, nonostante l’obbligo del principio d’unanimità tra gli Stati membri, era in grado di reagire in maniera flessibile ed efficace alle sfide che potevano presentarsi

. L’esempio classico è la reazione alla distribuzione da parte dell’Unione Sovietica degli SS-20 (marcatura sovietica RSD-10 Pionier) nell’Europa centrale.

Durante il vertice di Guadalupe del 6 gennaio 1979 i responsabili dei più importanti Paesi del Patto – il presidente francese Valery Giscard d’Estaing (anche se la Francia non era un membro dell’organizzazione militare del Patto Atlanticoi), il Cancelliere della Repubblica Federale di Germania Helmut Schmidt e il Primo Ministro della Gran Bretagna James Callaghan – acconsentirono allo stazionamento totale di 464 missili da crociera BGM-109 Tomahawk (foto sopra) e di 108 MGM-31 Pershing (foto sotto) sul territorio dei loro Stati e ciò consentì un relativamente rapido ripristino dell’equilibrio strategico.

A cavallo degli anni ‘80 e ‘90 del XX Secolo, l’Alleanza, che adempiva i suoi compiti basilari in maniera altamente efficiente all’epoca della Guerra Fredda, si trovò di fronte a un serio dilemma, collegato ad una ristrutturazione fondamentale dell’architettura di sicurezza internazionale.

La caduta dell’Impero sovietico, seguita dal crollo dell’Unione Sovietica, o dell’Impero russo, (l’autore, seguendo Zbigniew Brzeziński distingue “tre livelli dell’impero moscovita: l’Impero Russo, identificato coll’Unione Sovietica entro i propri confine; l’Impero Sovietico, cioé gli Stati del Patto di Varsavia e la Mongolia e, infine, l’Impero Comunista, comprendente i cosiddetti “clienti imperiali”: Cuba, Nicaragua, Vietnam, Angola, Etiopia, Corea del Nord e Yemen del Sud cfr. Z. Brzezinnski, Plan of the game. USA vs USSR, trad. di J. Kowalski, Varsavia 1990, p. 13-14) impose all’Alleanza una ridefinizione completa di funzioni e compiti.

La NATO venne trasformata da soggetto sulla difensiva, un “semplice” contrappeso al blocco sovietico, in soggetto attivo sul teatro europeo e aperto alla cooperazione con la maggior parte dei Paesi europei e non solo.

Un esemepio in merito può essere l’iniziativa di Dialogo Mediterrano, comprendente Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Marocco, Mauritania e Tunisia o il Consiglio di partenariato Euro-Atlantico ai cui lavori contribuiscono Armenia, Austria, Azerbaigian, Bielorussia, Finlandia, Georgia, Irlandia, Cazachistan, Chirghisistan, Macedonia (FYROM), Moldavia, Svezia, Svizzera , Tagichistan, Turkmenistan, Ucraina ed Uzbechistan. L’esempio più prossimo è l’Iniziativa di Cooperazione di Istanbul (Bahrein, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti.

Furono prese delle decisioni strategiche per estendere l’organizzazione ad Est e per includere non solo i Paesi che erano ancora sotto l’influenza sovietica (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Romania, Bulgaria), ma anche alcune ex repubbliche sovietiche (Lituania, Lettonia, Estonia). Inoltre l’adesione all’Alleanza venne ottenuta da un solo paese “post-Jugoslavo” – la Croazia – e dall’Albania, che durante la Guerra Fredda era fortemente collegata alla Cina; e nel 2016 il Montenegro probabilmente diverrà anch’esso membro della NATO.

L’Alleanza iniziò allora delle azioni di stabilizzazione attiva nelle aree di crisi da cui era minacciata da conflitti, sia direttamente (Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Mar Mediterraneo, Afghanistan, Baia di Aden e Mar Arabico, operazione contro la Libia), sia indirettamente (sostenendo l’Unione Europea in Congo o l’Unione Africana in Darfur, dando supporto ai Francesi e all’Unione Africana in Mali, nella Repubblica dell’Africa Centrale e nelle operazioni contro lo Stato islamico in Siria e Iraq). Questo allargamento geografico della “zona di interesse” ha finito per impigliare la NATO nell’azione più difficile di tutta la sua storia, cioè nella guerra in Afghanistan, lanciata come “Un’operazione di stabilizzazione”.

L’evoluzione del Patto Atlantico dopo il 1989 brevemente delineata fin qui ha portato a sfide completamente nuove, da affrontare da parte delle forze armate dei Paesi membri, tra le quali elenchiamo in ordine dì importanza:

•    la ridefinizione fondamentale dei compiti della NATO, che attualmente ha come priorità la prevenzione di potenziali conflitti e delle crisi, nonché la stabilizzazione della sicurezza nelle aree circostanti il territorio dell’Alleanza; la reazione alle minacce di crisi, controllando le crisi stesse fin dalla loro comparsa e la protezione contro i loro effetti, mantenendo una prontezza operativa tale da condurre efficacemente delle azioni di guerra per vincere ogni conflitto che possa essere iniziato contro l’Alleanza:
•    cambio dei campi d’azione riservati alle Forze Armate, così come esse sono adesso in base alla ridefinizione dei loro compiti;
•    complessi problemi psicosociali e sociali affrontati dalle Forze Armate dei paesi più sviluppati;
•    mancanza di coesione fra politica e Forze Armate, causata dall’allargamento dell’Alleanza,
•    differenze fra gli interessi nazionali della maggior parte dei membri più importanti.

A partire dal 2008, diciamo dalla guerra in Georgia, possiamo osservare l’apparizione della prossima sfida per la NATO: il cambiamento fondamentale della politica condotta dalla Federazione Russa. E’ collegato non solo all’Ucraina (in particolare per l’annessione della Crimea), ma pure all’Artico, alla regione del Caucaso e al Medio ed Estremo Oriente.

L’analisi della situazione attuale della NATO permette d’arrischiare il giudizio che, probabilmente, mai nella storia una tale struttura politica e militare complessa sia stata forzata a subire una così profonda trasformazione in così poco tempo; e la domanda più importante da porsi è: come costruire il compromesso d’interessi fra i Paesi principali ed essere pronti allo stesso tempo sia a operazioni di spedizione – cioè a proiezioni di potenza – che alla classica deterrenza militare?

La sfida posta dai nuovi obbiettivi
Nel 1989 l’elemento principale delle forze di terra erano pesanti formazioni corazzate e meccanizzate e, per quanto riguardava le forze aeree, unità concepite per guadagnare una supremazia permanente nell’aria sul campo di battaglia e sostenere le proprie forze di terra, la cosiddetta aviazione tattica.
Formazioni tattiche della NATO nel 1989

Stato

Divisioni corazzate

Divisioni meccanizzate

Divisioni di fanteria

Totale

Belgio

3

1

4

Danimarca

2

1

3

Francia

8

4

4

16

Grecia

1

11

1

13

Paesi Bassi

1

1

2

Canada

1

1

Portogallo

1

1

Germania Federale

6

4

2

12

USA

4

6

6

16

Turchia

1

2

20

13

Gran Bretagna

4

1

5

Italia

1

3

3

7

Totale

26

36

42

104

Quanto risulta da questa tabella è che su 104 formazioni tattiche a livello divisionale (o equivalenti) più di metà (62) appartenevano a divisioni pesanti (26 quelle corazzate e 36 le meccanizzate), mentre le formazioni tattiche di fanteria erano principalmente territoriali. Alcune unità da sbarco o dal carattere di proiezione (nelle Forze Armate di Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi) non cambiarono.

Pertanto, nella prima metà degli Anni ’90, le Forze Armate dell’Alleanza erano ancora perfettamente preparate ad una guerra contro un avversario che aveva cessato di esistere e rappresentare una minaccia reale (almeno teoricamente, perché la guerra in Georgia nel 2008 avrebbe dolorosamente inficiato questa ipotesi).
Da allora le azioni nei Balcani hanno mostrato la necessità d’avere forze di minor potenziale di combattimento individuale, ma mobili e capaci di spiegarsi con relativa rapidità nella zona di conflitto, o minacciata da un conflitto, e che possano operare per lungo tempo senza onere eccessivo per il sistema logistico.
Il processo di costruzione di tali formazioni, tuttavia, procedé in modo relativamente lento, soprattutto a causa dei seguenti motivi:

•    desiderio di consumare con la massima rapidità il “dividendo di pace” avuto dopo la fine della Guerra Fredda nel Vecchio Continente, che si espresse mediante dei tentativi di riduzione delle Forze Armate e non di loro ristrutturazione;
•    mancanza della permanenza in essere delle tendenze osservate prima, caratteristica particolarmente presente nei Paesi in area ancora d’influenza ex-sovietica, che a sua volta portò alla mancanza di una decisione strategica su quali e quante forze andassero utilizzate per le azioni di spedizione (formazioni leggere) e quali e quante per la difesa del territorio nazionale (formazioni pesanti concettualmente “radicate nella Guerra Fredda”); ma ora che la situazione è cambiata profondamente, la difesa del territorio nazionale sta riguadagnando la priorità;
•    relativamente lenta formazione del nuovo concetto strategico dell’Alleanza, che includeva la necessità d’una ristrutturazione politica fondamentale e non solo una mera riduzione delle Forze Armate e della necessità contingente di affrontare una nuova sfida con forze deboli del tipo di quelle di spedizione;
•    allentamento dell’economia globale (chiamato “crisi”), a cui si sono aggiunti i problemi della  “zona euro”, determinando le necessarie riduzioni delle spese militari.

L’unico strumento di spedizione dell’Alleanza, capace di rapido utilizzo, è (o era) la NATO Response Force. Tuttavia, dall’apparizione del concetto sono emerse gravi difficoltà per renderlo un fatto concreto. Le Response Forces sono state moltiplicate, così come le loro forze sono state accresciute nelle rotazioni successive ed è aumentato il coinvolgimento degli Stati membri nel quadro delle operazioni correnti. Va detto chiaramente che al momento le NATO Response Forces hanno perso – e in fretta – molta della loro importanza per alcuni paesi dell’Alleanza.

Dal momento che i primi due contingenti tattici finalizzati dell’Alleanza sono stati legati alla reazione a crisi specifiche, si deve presumere che le azioni future saranno effettuate sui territori di “paesi crollati”, come la Somalia, che è stata così per molti anni.
L’avversario in quei teatri non sarà composto dalle forze armate regolari di un Paese, ma da  formazioni irregolari, che utilizzano tattiche partigiane e terroristiche. E purtroppo le Forze Armate degli Stati membri della NATO non sono realmente preparate ad agire in simili condizioni, come mostra ad esempio il caso dell’Afghanistan. Pertanto si può affermare che l’Alleanza (percepita nel suo complesso) attualmente ha a disposizione Forze Armate non pienamente adeguate ad interventi di spedizione e che, allo stesso tempo, sono significativamente mal predisposte a, o non sono più in grado di, condurre una guerra convenzionale o effettuare una deterrenza convenzionale.

Inoltre, ciò che risulta dalla variazione del carattere dei compiti svolti dall’Alleanza è non solo la necessità di creare unità di significativa maggiore prontezza operativa, ma anche di apportare modifiche essenziali al loro addestramento, per non parlare della necessità d’un cambiamento fondamentale nel modo in cui è percepito un conflitto armato moderno.

Al fine di discutere le sfide derivanti da questa situazione, si segnala che, alla fine della Guerra Fredda, gli eserciti principali della NATO stavano entrando in una fase di trasformazioni dinamiche chiamata “la rivoluzione delle questioni militari” (RMA), la quale assicurò agli eserciti tecnologicamente avanzati un primato indiscutibile. Questo, al prezzo di minime perdite proprie, si traduceva nella possibilità d’una effettiva eliminazione delle forze armate avversarie che, per vari motivi, non avessero subito quello stesso processo di radicale trasformazione.

Il primo conflitto armato, durante il quale le capacità fornite dalla RMA sono state ampiamente utilizzate, è stato la guerra di liberazione del Kuwait, dove il particolare coronamento di capacità tecniche fornite dalla “rivoluzione” è stato l’attacco all’Iraq nel 2003.

Si può ricordare che durante il corso di quella guerra, dopo lo svolgimento delle operaizoni aeree che durarono dal 17 gennaio 1991 (“Desert Storm”) le forze di terra (“Desert Sword”) si unirono all’azione il 24 febbraio e presero tutti gli obbiettivi loro assegnati entro soli quattro o cinque giorni.

Le perdite americane ammontarono a 148 morti in azione e 145 in altre circostanze, quelle britanniche rispettivamente a 38 e 9 morti, quelle francesi a due. I contingenti dei Paesi arabi persero (escludendo il Kuwait) 37 morti in azione (18 Sauditi, 10 Egiziani, 6 soldati degli EAU e tre Siriani). In confronto, secondo attendibili valutazioni delle perdite irachene fatte dagli Americani in base agli interrogatori dei prigionieri di guerra, questi ebbero circa 10.000-12.000 morti a causa dell’azione delle forze aeree alleate e altri 10.000 durante la campagna di terra. Durante la guerra successiva nella regione del Golfo Persico, nel 2003, le forze americane e britanniche sconfissero completamente l’Esercito iracheno e fecero cadere il regime che guidava la Nazione al costo di 150 morti, di cui 139 erano americani.

Da allora il primato della tecnologia è sembrato rendere la guerra più simile a un videogioco che a uno scontro sanguinoso. Il fatto di ottenere, da un gruppo ristretto di Paesi, una supremazia militare indiscutibile su altri soggetti delle relazioni internazionali ha avuto un impatto profondissimo sulla condotta dei conflitti armati riguardo sia alle tattiche puramente militari, sia alle arti operative, sia alle misure e alle pianificazioni strategiche e politiche.

Innanzitutto il fattore militare “puro”, ha preso la supremazia a scapito del pensiero politico.
Il principale obbiettivo dell’amministrazione repubblicana quando iniziò l’intervento in Afghanistan e in Irak fu quello di vincere la guerra (che fu ottenuto a un costo relativamente basso grazie alla RAM), mentre mancava, o nel migliore dei casi fu frammentario, un piano generale per il periodo dopo la vittoria militare. Apparve chiaro che anche la più avanzata tecnologia militare non è sufficiente a “vincere la pace-”

I capi militari e i pianificatori hanno teso a rendere assoluto l’aspetto tecnico e tecnologico della condotta della guerra, riducendo le riflessioni tattiche e operative fino a una particolare atrofia del classico “pensiero tattico” o, come si può anche chiamare, dell’“istinto del guerriero”. Il peso di certi elementi fondamentali dell’azione come, ad esempio, la ricognizione, è stato di conseguenza spostato quasi completamente su sistemi tecnici, UAV, droni, macchine volanti e sistemi di ricognizione satellitari.

Il tentativo di ottenere un effetto sorpresa è stato sostituito dalla convinzione di poter battere l’avversario con un preciso fuoco tambureggiante sulle sue posizioni in precedenza riconosciute. Di conseguenza, si è registrata una tendenza alla diminuzione delle competenze “classiche” del soldato nel personale delle tipiche unità di linea (l’eccezione si ha solo per le formazioni operative speciali), come il combattimento ravvicinato coll’avversario, la conduzione di una ricognizione a vantaggio del proprio plotone o della propria compagnia, l’abilità d’improvvisare di fronte a un inatteso rovesciamento della situazione sul campo di battaglia e così via.

Un tecnico medio d’un’unità meccanizzata di un Paese tecnologicamente avanzato era abituato al pensiero che o non avrebbe mai visto “di persona” un avversario, un soldato o tutto un esercito ostile, o, in caso affermativo, sarebbe successo da un distanza di sicurezza, utilizzando prevalentemente gli apparati visivi tecnicamente avanzati del suo sistema d’arma.

Un processo simile, ma per quanto riguarda un altro settore della “pratica militare”, sta prendendo posto tra i comandanti di vario grado, per i quali avere successo è diventato – mettendola facile – una funzione del numero e della qualità dei mezzi tecnici impiegati, che consente di pianificare una precisa ripartizione d’una data quantità d’esplosivo in un dato luogo in un momento specifico.

Parallelamente, la saturazione delle formazioni operative con le più moderne tecnologie militari moderne è stata accompagnata dalla riduzione percentuale del personale destinato al confronto diretto col nemico, poiché il completamento dell’organico degli operatori dei nuovi sistemi è avvenuto a scapito dell’organico dei “fucilieri”, cioè dei soldati normali.

Di conseguenza, una parte cruciale del personale degli eserciti moderni non consiste in “soldati-guerrieri”, ma in “personale tecnico di manutenzione delle reti di computer” in uniforme, “esperti di applicazioni di gestione”, o “personale della stazione di comunicazione troposferica”, così come di “specialisti della logistica”, senza i quali, ed è un dato di fatto, un esercito moderno non può esistere, ma che non partecipano direttamente a una battaglia.

Infine, questo noto e negativo drenaggio di risorse ai danni delle “prime linee” ha come risultato il fatto che le forze armate (ad esempio l’US Army), che agiscono in base a uno specifico fattore di politica di soglia di massimo numero, cioè di massimo di forza bilanciata da non oltrepassare, sempre più spesso si rivolgono a una particolare “esternalizzazione” e impiegano “società private militari” (PMC) per eseguire i compiti logistici e talvolta anche alcune mansioni di supporto al combattimento.

Le conseguenze sulle forze armate occidentali

Le conseguenze di questo processo, già notato e anticipato, vanno oltre questo testo. Lo scrivente si contenta si dire che la “privatizzazione strisciante” della guerra è senza dubbio un dato di fatto. Pertanto le forze armate dei Paesi dell’Alleanza si trovano di fronte alla necessità di “imparare” come condurre la guerra irregolare, con la simultanea conservazione di capacità di effettuare azioni di guerra nel caso di un conflitto di media e alta intensità.
Questo è un compito enormemente complesso, che ha effetto sull’intera organizzazione delle forze armate, dalle armi elementari ai sistemi di comando e controllo.

Allo stesso tempo, si deve sottolineare che dal punto di vista militare le forze  professionali, dopo la trasformazione causata dalla RMA, sono molto sensibili alle perdite, in quanto, a causa delle limitate riserve di personale, è molto difficile sostituire morti e feriti con riservisti altamente qualificati.

Questo è ciò che gli Americani hanno sperimentato in Irak e in Afghanistan dovendo, di conseguenza, abbassare i criteri minimi che gli aspiranti soldati devono soddisfare, il che, a sua volta, ha reso necessario un maggiore sforzo addestrativo.

Così, per quanto riguarda un moderno esercito, tecnologico è vero quanto scrive John Ferris (Conventional forces in a modern war, in: J. BAYLIS, J. WITZ, C. S. GRAY, E. COHEN, Strategy in a modern war. Introduction to strategic studies, Cracovia, 2009, p. 287) , cioè che è composto da:
“[…] Gusci d’uovo armati di martelli, capaci di fare danni, ma incapaci di resistere a quelli inferti a loro […], in condizioni favorevoli rivelano eccezionali vantaggi, agendo efficacemente in ogni dettaglio, […] appariranno invincibile là dove la potenza disponibile è un fattore determinante; si comporteranno molto peggio in qualunque altra forma di combattimento, incapaci di subire perdite pesanti e poco adatti a una lotta diretta con l’avversario, dove sarà difficile per loro fare uso del proprio vantaggio naturale o di proteggere i propri punti deboli.

Le esperienze della NATO in Afghanistan confermano la diagnosi di cui sopra. Gli Stati dell’Alleanza Atlantica sono attualmente costretti ad affrontare gravi problemi sociali e psicosociali. Si riconosce che uno dei più importanti – nel contesto di questo articolo – è l’evoluzione del sistema di valori “europeo”, che ha comportato un cambiamento di atteggiamenti sociali nei confronti della guerra in quanto tale e, successivamente, verso la partecipazione alla difesa collettiva, in particolare nelle azioni “expeditionary” – di spedizione – che, nella percezione comune, non sono collegate direttamente alla sicurezza nazionale.

Ciò che ha iniziato a giocare un ruolo dominante nei Paesi più ricchi, cioè quelli che hanno a loro disposizione maggiori capacità militari, è l’atteggiamento post-eroico, ma in una versione semplificata, per non dire “volgarizzata” (termine diffuse dal filosofo tedesco Peter Sloterdijk in un famoso lavoro, pubblicato per la prima volta nel 1983).
Si presuppone da parte delle società che vivono in prosperità e pace, la convinzione, che il mondo intero sia in linea di massima uguale all’Occidente, ma solo più o meno “indietro” in riferimento alla mentalità ed al modo di vivere occidentale.

Nella prospettiva internazionale, questo atteggiamento prima di tutto favorisce approcci morbidi e dall’impatto ridotto (tentativo di convinzione della controparte, negoziati, sanzioni economiche limitate) dissociati dall’impiego della forza.

L’uso dello strumento armato è così limitato che l’efficacia della “mano pesante” è molto piccola. I governi che funzionano in base a procedure democratiche devono tener conto di questo atteggiamento principalmente pacifista, che non accetta le perdite (prima di tutto di persone) non solo nel proprio schieramento, ma nemmeno in quello degli avversari e, soprattutto, tra la popolazione civile.

Così, come i tentativi europei di controllo della crisi dei Balcani hanno dimostrato, per utilizzare in modo efficace il potere militare è della massima importanza la volontà politica, che però spesso manca. E tale atteggiamento può portare a eventi tragici come quelli verificatisi  a Srebrenica.

Sono caratteristici della tendenza di cui sopra altri due fenomeni: l’invecchiamento delle società europee e il loro atteggiamento progressivamente sempre più giovanile, che potremmo chiamare “giovanilizzazione”, combinati col culto del consumo.

Di conseguenza, da un lato diminuisce la percentuale della popolazione in grado di portare un’arma e, dall’altro, gli eserciti composti da volontari devono affrontare sempre maggiori difficoltà legate al completamento dell’organico.

Nei pochi paesi in cui il servizio militare è ancora obbligatorio è sempre più difficile ottenere l’accettazione sociale dell’invio di soldati di leva all’estero. Come Ruperth Smith ( The usefulness of military force. The art of war in the contemporary world, edizione polacca pubblicata a Varsavia nel 2010, p. 47.) ha scritto:

“ […] L’elevato livello di scolarità dei soldati – tipico degli eserciti dell’Europa Occidentale – e le aspettative della società per quanto riguarda il loro servizio e il loro trattamento, hanno un impatto sul carattere delle forze armate europee e anche sulla possibilità delle loro azioni operative. Per dirla semplicemente: queste forze armate sono fortemente dipendenti dalla tecnologia e richiedono grandi spese per garantire loro qualche comodità sul campo di battaglia; inoltre, i comandanti sono molto riluttanti a esporre i soldati a dei rischi durante il combattimento”.

Per di più alcune Forze Armate, prevalentemente quelle britanniche e francesi, ma non solo loro, hanno forti riserve a proposito dell’arruolamento di naturalizzati immigrati da aree instabili che potrebbero essere obiettivo o teatro di spedizioni.

Questo problema, che è stato tenuto riservato per molti anni a causa del “politicamente corretto”, è divenuto oggetto d’un tempestoso dibattito in Gran Bretagna dopo la morte in Afghanistan di Jabron Hashmi, il primo soldato musulmano ucciso là.

Si può quindi concludere che il problema del reclutamento di volontari provenienti da minoranze etniche diverrà presto oggetto di discussione anche in altri Paesi europei: Spagna, Paesi Bassi e Belgio; ed è una questione ardua e potenzialmente assai sensibile.
Oggi come oggi, nella maggior parte dei Paesi della NATO, un problema che sta già inficiando seriamente un efficace uso delle Forze Armate in azioni di spedizione è il basso supporto sociale dato all’impegno armato all’estero.

Verso l’incapacità sociale di combattere?

Analizzando i processi sociali in atto si può ipotizzare che un simile atteggiamento diverrà sempre più marcato e che, col passar del tempo, “La mancanza d’accettazione”  possa evolversi in un rifiuto esplicito.

Perciò non si può escludere una situazione in cui, a dispetto del possesso di strumenti militari potenzialmente in grado di risolvere una crisi, la NATO possa rimanere passiva per via d’una mancanza d’accettazione sociale dell’intervento da parte dei più grandi e potenti Stati membri dell’organizzazione.

Certamente queste tendenze si sono rafforzate dopo l’inizio della ritirata delle forze dell’Alleanza dall’Afghanistan, dato che là l’impegno a lungo termine finirà, nel migliore dei casi, solo quando sarà fissata una scadenza precisa. Per di più si può affermare che un governo locale sostenuto dall’Occidente semplicemente non durerà a lungo, il che significa che lo scopo principale della missione non sarà stato raggiunto.

Il Patto Atlantico fu creato nel 1949 come un’organizzazione fra dieci Paesi (otto europei , gli Stati Uniti e il Canada) determinate a difendere l’Europa occidentale contro la minaccia sovietica. Dunque il fine esistenziale della NATO era piuttosto chiaro e accettabile a tutti i membri.
Tranne che per il Portogallo di Salazar, tutti gli Stati membri avevano sistemi politici democratici e, per di più, c’erano molte significative somiglianze sotto il profilo sociale e culturale; e l’America era il capo naturale, potente e indiscutibile.

Attualmente l’Alleanza consta di 28 Stati e in Europa si estende da Portogallo, Gran Bretagna e Norvegia all’Ovest ai confini orientali di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Turchia.

Benché nell’Alleanza non vi sia più alcun Paese non democratico, è comunque difficile non accorgersi che, a dispetto di questo, l’Organizzazione è meno coesa e internamente meno consistente di prima. Come risultato è meno capace d’intraprendere azioni concrete. Ci sono alcune linee di demarcazione che dividono la comunità dei 28 Stati sovrani partecipanti al gioco internazionale; e le più importanti sono le seguenti:

•    l’atteggiamento degli avversari “storici”, come ad esempio la Russia – Gli Stati Baltici, la Polonia, la Romania, la Bulgaria e finanche la Turchia hanno grossi timori legati alla possibilità di rinascita, in diverse condizioni storiche, d’una Russia “imperiale”, che cerchi di ricostruire ed estendere la sua zona d’influenza.

– gli Stati dell’Europa occidentale non capiscono quest’atteggiamento e considerano le paure dei nuovi membri nei confronti della politica di Mosca come una presunta “Russofobia”;

•    l’atteggiamento verso un ulteriore allargamento dell’Alleanza, che è abbondantemente consequenziale all’atteggiamento nei confronti della Russia

– I Paesi delle “Frontiere orientali della NATO” vedrebbero molto volentieri un più stretto rapporto dell’Ucraina  e della Georgia coll’Alleanza e, come risultato finale, il loro ingresso in essa; l’approccio ristretto ad un’ulteriore allargamento dello spazio di sicurezza atlantica nasce dall’opposizione russa;

•    il diverso atteggiamento nei confronti delle direttrici d’azione delle attività dell’Alleanza – Gli Stati mediterranei chiedono un maggior impegno della NATO per risolvere i problemi del Medio Oriente, del Magreb e dell’Africa Nera, a spese dell’attività portata avanti nell’Est.

Insomma, le divisioni nella NATO sono più profonde di quanto siano mai state e il ritrovamento d’una loro costruttiva soluzione costituisce la sfida più importante mai affrontata dall’Alleanza Atlantica.

 

* Krzysztof Kubiak classe 1967, capitano di Fregata della Marina Polacca e dottore di ricerca, dopo aver insegnato all’Università Navale di Gdynia dal 1993 al 2007 e all’Università della Bassa Slesia di Wroclaw (Breslavia) dal 2005 al 2014, è attualmente professore ordinario all’università Jan Kochanowski di Kielce – Cracovia.

Foto: NATO, AP, Reuters, US DoD, UK MoD,

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