L'intervento militare russo salva Bashar Assad

Anche se solo nelle ultime ore si registra l’atterraggio di 15 cargo militari russi pieni di equipaggiamento militare a Latakya non è ancora chiaro se le forze militari russe dislocate nelle ultime settimane in Siria abbiano già sostenuto i primi scontri a fuoco con i jihadisti. Di certo però hanno conseguito l’indubbio successo di salvare Bashar Assad costringendo gli USA a rivedere la politica nei confronti del regime di Damasco.

Dopo aver definito la presenza di forze russe “elemento di destabilizzazione” e “potenziale minaccia per la Coalizione”, Washington ha fatto un passo indietro accettando il dialogo proposto da Vladimir Putin per coordinare gli sforzi internazionali contro il terrorismo. Usa e Russia possono trovare “spazi per cooperare” in Siria ha affermato il Segretario alla Difesa, Ashton Carter a pochi giorni dall’incontro di New York tra Barack Obama e Vladimir Putin del 28 settembre.

Per la pima volta gli Stati Uniti hanno accettato che l’uscita di scena di Assad non sia più la precondizione per la soluzione della crisi siriana: il segretario di Stato John Kerry ha ribadito che il presidente siriano dovrà andarsene ma non ora e comunque non entro una data prefissata.

Un’apertura “fatta digerire” dagli USA anche a britannici e francesi (che vogliono colpire l’ISIS in Siria ma senza aiutare le forze del regime) e che di fatto accetta la proposta russa formulata fin dal 2012 di soluzione della guerra siriana con un negoziato abbinato a una lenta transizione del potere.

“Un processo” in cui “tutte le parti in causa” si mettano d’accordo, ha sottolineato Kerry che non ha rinunciato a ribadire che la “presenza di aerei da caccia e sistemi missilistici terra-aria russi in Siria solleva seri interrogativi”.

L’intesa Mosca-Washington include infatti un accordo di coordinamento tecnico per evitare che si verifichino incidenti negli affollati cieli siriani dove operano i cacciabombardieri americani, della Coalizione, turchi, ovviamente siriani e da alcuni giorni russi.

Senza dimenticare i droni e i jet israeliani che violano lo spazio aereo di Damasco per colpire i convogli di armi iraniane ai miliziani libanesi Hezbollah. La recente visita di Benjamin Netanyahu a Mosca ha permesso di chiarire il ruolo militare russo stabilendo un link diretto tra la difesa aerea di Gerusalemme e il comando russo a Latakya che scongiuri rischi di battaglie aeree tra russi e israeliani.
L’accordo non sembra però aver messo da parte diffidenze e sospetti.

Il ministro degli Esteri britannico Philip Hammond ha detto venerdì che l’incremento della presenza militare russa in Siria “complica la situazione” perché rinforza il presidente Bashar al-Assad e aumenta la “responsabilità morale di Mosca per i crimini commessi dal regime” precisando che “Assad deve andarsene e non può essere parte del futuro in Siria”.

Un’affermazione certo apprezzata da sauditi, qatarini ed emiratini che tante decine di miliardi investono a Londra ma che nei fatti evidenzia la confusione mentale che regna in Occidente dove sembra esserci ancora “inspiegabili dubbi” circa il fatto che l’unica alternativa concreta ad Assad è uno stato islamico, cioè l’obiettivo condiviso da ISIS, salafiti, fratelli musulmani e al-Qaeda che da tempo rappresentano la quasi totalità dei gruppi armati anti-regime.

Ancora una volta emerge più pragmatica e concreta la posizione del Cremlino. “E’ mia profonda convinzione che qualunque azione finalizzata a “distruggere il legittimo governo” di Bashar al Assad in Siria” creerà una situazione come quella che si può vedere ora in altre regioni, per esempio in Libia, dove tutte le istituzioni statali sono state annientate” ha detto Vladimir Putin alla CBS.

Sul piano politico la visita al Cremlino del premier israeliano ha suggellato il rinnovato ruolo di arbitro giocato da Mosca nella crisi siriana dopo che nell’estate del 2013 Putin riuscì a scongiurare i raid aerei di USA e alleati contro Damasco negoziando la consegna delle armi chimiche siriane.
In termini militari il rapido potenziamento di Mosca in Siria è senza precedenti. Le forze schierate a Latakya e Tartus sarebbero ormai di almeno  1.500 militari con droni, una dozzina di carri T-90, decine di veicoli da combattimento BTR 82, elicotteri da combattimento MI-28 e almeno due dozzine di cacciabombardieri tra Sukhoi Su-30, bombardieri Su-24 e aerei da attacco Su-25.

Secondo Debka.com, sito israeliano vicino all’intelligence, le truppe russe sarebbero già in azione tra Aleppo e Homs dove l’ISIS minaccia di interrompere l’Autostrada 4 separando Damasco dai territori costieri e del nord ancora in mano al regime.

Benché Mosca abbia negato l’impegno diretto di truppe russe in combattimento contro i jihadisti, altre indiscrezioni hanno segnalato la presenza di fanti di marina e forze speciali russe sulle colline a est di Latakya, lungo le linee che proteggono la fascia costiera abitata da sciti alauiti dalle offensive dei jihadisti dell’Esercito della Conquista, che riunisce salafiti, qaedisti e fratelli musulmani con l’appoggio di Turchia, Arabia Saudita e Qatar.

L’iniziativa di Mosca rappresenta per ora un successo anche in termini d’immagine: i russi si rivelano infatti gli unici a mettere i cosiddetti “boots on the ground” contro l’ISIS ridicolizzando un Occidente sempre più timido quando si tratta di combattere i jihadisti e che si limita a deboli raid aerei e ad addestrare forze amiche.

Del resto proprio l’intervento di Mosca sta dimostrando che “un’altra Coalizione è possibile”. A Baghdad è stato istituito un comando militare congiunto di coordinamento delle operazioni contro i jihadisti che riunisce russi, iraniani, siriani e iracheni.

Secondo Fox News, che ha appreso la notizia da fonti di intelligence occidentali, nella cellula di coordinamento sono presenti alcuni generali di brigata russi.
Il comando delle forze armate irachene ha dichiarato che sta collaborando, sia per quanto riguarda l’attività di intelligence che le operazioni di sicurezza contro l’ISIS, con Russia, Iran e Siria.

Su tutto il fronte della lotta all’ISIS il ruolo degli USA appare compromesso. Lo conferma anche l’ennesima defezione dei “combattenti siriani moderati” addestrati dagli statunitensi in Turchia per combattere l’ISIS nell’ambito di un programma triennale che prevedeva 1,5 miliardi di dollari di spesa per istruire e armare 16.200 mila miliziani.

Il primo gruppo di combattenti (54 uomini) è stato attaccato dai qaedisti del Fronte al-Nusra in agosto e si è unito a loro come hanno fatto del resto (senza neppure opporre resistenza) i 75 componenti del secondo gruppo che, come alla fine anno dovuto ammettere fonti militari americane dopo che il Pentagono aveva inizialmente negato.

Le foto diffuse dal Fronte al-Nusra di pick up, armi e munizioni consegnate dai combattenti delle Nuove Forze Siriane hanno seppellito nel ridicolo il programma di addestramento statunitense.

Putin non h perso l’occasione per criticare il fallito programma statunitense di sostegno ai ribelli anti-regime in Siria definendolo non solo illegittimo, ma anche inefficace perché’ molti di coloro che sono stati addestrati adesso stanno confluendo tra le forze jihadiste, portandosi dietro anche le armi fornite da Washington.

Intervistato da alcuni network americani, alla vigilia del delicato incontro di oggi a New York, Putin ha ripetuto che il presidente siriano Bashar Assad merita il sostegno internazionale perché sta combattendo contro organizzazioni terroristiche.  “A mio avviso fornire sostegno militare a strutture illegali va contro ai principi del moderno diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite” ha osservato Putin nelle interviste a Cbs e Pbs e il cui testo è stato diffuso dal Cremlino.

Lo smacco statunitense coincider con la diffusione di notizie che quantificano in 30 mila i cosiddetti “foreign fighters” che hanno raggiunto Iraq e Siria dal 2011  con un ritmo di nuovi arruolamenti di circa mille unità al mese. Secondo il New York Times che cita fonti d’intelligence, gli americani dell’ISIS sarebbero almeno 250.

Nel complesso il ruolo degli USA e della Coalizione da loro guidata contro l’ISIS appare quanto meno irrilevante. Una Coalizione in cui, a dispetto dei primi raid aerei francesi in Siria contro centri d’addestramento dell’ISIS a Raqqah, gli Stati Uniti hanno finora effettuato il 95% delle quasi 2.600 incursioni messe a segno dalla Coalizione in Siria in un anno di “guerra” allo Stato Islamico.

Un dato che dimostra la pochezza dello sforzo internazionale e la concreta inconsistenza degli alleati, europei ma soprattutto arabi con le monarchie sunnite del Golfo di fatto assenti dalla guerra al Califfato perché in gravi difficoltà con la propria opinione pubblica quando si tratta di colpire i “fratelli sunniti” dello Stato Islamico.

Non è un caso che molto spazio anche mediatico venga assicurato a Riad e nelle altre capitali arabe del Golfo Persico alla ben più popolare guerra in Yemen dove sono presenti ormai 30 mila soldati sauditi, qatarini e degli Emirati ma dove il nemico da combattere sono gli sciiti Houthi.

Le dimensioni del dispositivo militare russo in Siria, anche se incentrato su una componente d’attacco significativa (aerei Su-24 e Su-25 oltre a elicotteri da combattimento)  non consentono per ora alle forze di Assad di riconquistare quel 70 per cento del territorio caduto in mano ai jihadisti ma permettono di rafforzare le difese intorno all’asse Damasco-Homs- Aleppo- Latakya mentre il consistente apparato di difesa aerea messo in campo nell’aeroporto di Latakya costituisce un monito alla Coaliizione e alla Turchia, recentemente entrata nel conflitto, a non approfittare della debolezza di Assad per dare una spallata al suo regime.

Anche sul mare Mosca prepara un dispositivo militare con evidenti funzioni di deterrenza. L’ammiraglia della flotta russa del Mar Nero, l’incrociatore pesante lanciamissili Moskva, ha lasciato la base di Sebastopoli alla volta del Mediterraneo, dove a largo della coste siriane parteciperà ad esercitazioni navali con altre unità russe. In zona si trovano già il cacciatorpediniere Smetlivy e la nave d’assalto anfibio Saratov e pure, ma mancano conferme ufficiali, il sottomarino nucleare lanciamissili balistici Dmitri Donskoi, unico esemplare ancora  operativo della classe Tifone. Nonostante il ministero della Difesa russa abbia sottolineato che le manovre siano state programmate nel 2014 è evidente che il Cremlino sottolinei anche con queste manovre sul mare il suo ruolo in Siria.

Per Mosca non si tratta solo di appoggiare un alleato storico o di difendere la propria base navale a Tartus ma anche di combattere i gruppi jihadisti che secondo i servizi segreti (FSB) hanno arruolato nell’ISIS 2.400 cittadini russi.
Accettando la sfida l’ISIS ha fatto sapere tramite un imam di Raqqa (capitale dello Stato Islamico) che “taglieremo le teste dei soldati russi in Siria”.

@GianandreaGaian

Foto: Cremlino, Marina russa, AP. AFP, Reuters

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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