La diplomazia americana dell’ignoranza

 

di Daniel Pipes (nella foto sotto) da  The Washington Times  del 9 novembre 2016

Gary Johnson, il candidato del Partito libertario nella corsa alla Casa Bianca, di recente ha detto qualcosa di sorprendente in difesa della sua ignoranza in politica estera: “Il fatto di poter mettere i puntini alle i e i trattini alle t riguardo a un leader di governo straniero o una località geografica li autorizza poi a mettere in pericolo il nostro esercito”. In altre parole, non sapere dove si trovi un luogo è una buona cosa perché, come sintetizza in maniera spiritosa in Alice Ollstein, “non è possibile entrare in guerra con un paese se non si sa dove esso si trovi”.

Da studioso di politica estera americana, queste parole mi colpiscono profondamente, non perché sono bizzarre, ma perché sono una tendenza predominante. Davvero. Qui di seguito, tre importanti precedenti del secolo scorso.
Nel 1919, il presidente Woodrow Wilson inviò la Commissione internazionale di inchiesta (comunemente nota come Commissione King-Crane) in Palestina e in Siria per appurare quali fossero i desideri politici della popolazione. Alla guida di questa commissione potenzialmente influente c’erano personaggi che non disponevano affatto delle qualifiche necessarie per attuare questa impresa. Henry C. King era un filosofo e presidente dell’Oberlin College; Charles R. Crane era un faccendiere, un antisemita e l’erede di una fortuna legata all’azienda di sanitari bagno, di proprietà della sua famiglia. Sorprendentemente, la loro ignoranza era considerata un vantaggio. Un collaboratore del presidente spiegò allora che Wilson “riteneva che questi due uomini fossero particolarmente qualificati per andare in Siria perché non sapevano nulla di questo paese”.

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Il segretario di Stato Robert Lansing, che pensava che Wilson avesse sbagliato a riguardo, spiegò che il presidente non voleva nominare “persone che hanno familiarità con le questioni politiche e territoriali”. Invece, Wilson pensava che “una mente vuota è più ricettiva della verità rispetto a una che è influenzata dall’esperienza e dagli studi”. In effetti, l’ignoranza è “una qualifica essenziale per un investigatore”.

Non sorprende affatto che il rapporto della Commissione King-Crane, fosse (nelle parole dello storico Elie Kedourie) “infondato così come era trascurabile la sua influenza sulla politica”.

Nel 2003, l’amministrazione Bush annunciò che John S. Wolf era il nuovo inviato presidenziale in Medio Oriente (in modo più formale, “capo della missione di coordinamento e controllo del processo di pace in Medio Oriente”). Il Washington Post (in un articolo mirabile, titolato “For Mideast Envoy, Rookie Status May Be an Advantage”) citava quanto dichiarato da un alto funzionario dell’amministrazione Bush: “È una buona cosa che abbia eccezionali capacità negoziali e ben poca esperienza diretta nel settore”.

Lo stesso Wolf ammise di avere una totale mancanza di esperienza riguardo al Medio Oriente e in seguito dichiarò di essere rimasto sorpreso per la nomina: “Ho chiesto al segretario di Stato [Colin] Powell, al consigliere per la Sicurezza nazionale [Condoleezza] Rice e al presidente [George W.] Bush perché proprio io?” Perché volevano “qualcuno con una nuova prospettiva”. Wolf concordò su questo approccio e disse: “La mia mancanza di esperienza è stata un vantaggio. Ho imparato che in Medio Oriente, la gente tende sempre a guardare indietro ed io le ho chiesto di guardare al futuro”.

Non sorprende affatto, come per la Commissione King-Crane, che l’avventura diplomatica di Wolf abbia avuto un impatto trascurabile: dopo soli quattordici mesi di missione, egli rassegnò le dimissioni per diventare presidente della Eisenhower Fellowships, un’organizzazione no-profit.

Il “Rapporto del Gruppo di studio sull’Iraq” suscitò interesse, ma ebbe poco impatto.
Nel 2006, il Gruppo di studio sull’Iraq del governo americano era costituito da dieci membri che incarnavano la stessa visione “ignorante”. James A. Baker, III e Lee H. Hamilton presiedevano il Gruppo di cui facevano parte Robert Gates, Rudy Giuliani, Vernon E. Jordan, Jr., Sandra Day O’Connor, Leon E. Panetta, William J. Perry, Charles S. Robb ed Alan K. Simpson. Non uno solo di loro contribuì con la propria competenza al tavolo dell’Iraq, garantendo che la commissione producesse un rapporto politicamente ricco di sfumature, ma strategicamente inutile.

In verità, il Rapporto del Gruppo di studio sull’Iraq si rivelò ben peggiore del previsto ed ebbe un’influenza minima. Come scrissi all’epoca, questo rapporto “recupera le passate politiche fallimentari degli Stati Uniti in Medio Oriente per riciclarle come attuale linea politica da adottare. Più dettagliatamente, riguardo al ruolo americano in Iraq il documento raggiunge stupidamente un compromesso tra lasciare le truppe al loro posto o procedere al loro ritiro”.

Da un secolo, i presidenti americani e altri leader valorizzano questa mentalità degna del libro di Mark Twain “Gli innocenti all’estero” e che Gary Johnson ci ha appena propinato. Lavorando da quasi cinquant’anni su questo argomento, l’idea che l’ignoranza consenta di migliorare l’attività diplomatica è piuttosto deprimente. E allora che cosa ho fatto per tutto questo tempo e perché?
Detto questo, visto lo stato miserevole in cui versano gli studi sul Medio Oriente e il pessimo operato dei funzionari diplomatici come degli arabisti, devo ammettere che evitare gli specialisti può avere un certo merito. Ma questo non significa certamente che occorra rivolgersi agli ignoranti.

(Articolo in lingua originale inglese: “America’s Know-Nothing Diplomacy” – Traduzione di Angelita La Spada)

 

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