Ebola e guerra: in Congo le prove tecniche di una “tempesta perfetta” ?

Dopo aver devastato l’Africa Occidentale dal 2013 al 2016 – infettando 28.000 persone e uccidendone undicimila – il virus Ebola è ricomparso nella Repubblica Democratica del Congo. Un primo focolaio epidemico, originatosi a maggio del 2018 nella provincia Equatore, fu arginato dopo soli due mesi grazie al pronto intervento di una task force internazionale guidata dal Ministero della Salute congolese e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Soltanto una settimana dopo che questo era stato dichiarato concluso, un nuovo ceppo virale – geneticamente diverso dal precedente e pertanto non collegato ad esso – ha iniziato a mietere vittime nelle provincie Kivu Nord e Ituri, nel nord-est del paese.

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Dallo scorso agosto l’epidemia ha causato 283 morti su 494 persone infette (di cui almeno 30 operatori sanitari) e sembra proseguire incontrastata, confermandosi come la seconda più grave nella storia naturale del virus Ebola.

Un funesto ritorno, un labile confine. La Repubblica Democratica del Congo ha già combattuto Ebola in passato, per ben nove volte. Il virus prende nome da un fiume tributario del Congo e fu identificato per la prima volta nel 1976 proprio qui, nel paese che un tempo si chiamava Zaire. Il villaggio di Yambuku, epicentro della prima epidemia, dista infatti poche centinaia di kilometri da Mangina, ground zero di quella attuale.

Per oltre quarant’anni Ebola è apparso nelle zone rurali di diversi paesi sub-Sahariani, uccidendo rapidamente e scomparendo subito dopo. Nel 2013 emerse nelle aree urbane dell’Africa occidentale, mostrando per la prima volta al mondo intero il suo potenziale distruttivo nel contesto di precarie condizioni igieniche associate a una densità di popolazione elevata. Quello a cui assistiamo oggi è un ritorno a casa in uno scenario inedito, il peggiore possibile, perché mai prima d’ora Ebola era stato in una zona di guerra.

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Nord Kivu e Ituri sono da decenni teatro di ostilità fra le truppe regolari dell’esercito congolese e una galassia di oltre cento milizie antigovernative, tra cui spiccano gli integralisti islamici dell’Allied Democratic Forces – National Army for the Liberation of Uganda (ADF-NALU) e i guerriglieri di etnia Hutu del gruppo Mayi-Mayi Nyatura.

Le due provincie sono tra le più densamente popolate del paese e almeno dieci milioni di persone vivono nell’area interessata dall’epidemia, delle quali un milione e mezzo sono sfollati interni o rifugiati dal genocidio del 1994 in Rwanda. Si muovono di continuo e ogni giorno attraversano il confine con il Sud Sudan, il Burundi, il Rwanda, la Tanzania e l’Uganda, la cui capitale Kampala – nodo aeroportuale intercontinentale – dista soli 300 km dalla città di Beni, il centro col maggior numero di contagiati.

Nuove terapie. Per gli operatori sanitari di prima linea, arginare la diffusione della malattia significa eseguire screening della temperatura e test diagnostici per identificare tutti gli infetti, quindi rintracciare nel più breve tempo possibile i loro contatti e i contatti di questi.

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Vuol dire gestire i casi clinici, adoperarsi nell’informare le comunità locali sull’igiene e la prevenzione della trasmissione virale, scoraggiare pratiche di guarigione e riti funerari che espongano al contatto con il corpo infetto del defunto e promuovere l’adozione di sepolture sicure e dignitose. Per la prima volta però, vuol dire anche somministrare delle cure potenzialmente efficaci contro un virus che finora, nella maggioranza dei casi, non ha lasciato scampo.

Grazie all’approvazione da parte di un comitato etico congiunto del Ministero della Salute di Kinshasa con l’OMS e i partner internazionali, è stato approvato l’uso compassionevole di cinque farmaci sperimentali e l’avvio di un trial clinico randomizzato. Inoltre, già dall’epidemia occorsa in Equatore è stato reso disponibile un vaccino sperimentale, messo a disposizione dalla multinazionale farmaceutica Merck e somministrato finora a 40.000 persone. In questi giorni, mentre prosegue lo screening di migliaia di transfrontalieri nei punti d’ingresso con Uganda e Sud Sudan, entrambi i paesi si apprestano a vaccinare tutti i loro operatori sanitari di prima linea.

Diffidenza e proiettili. Oltre che dalla natura impervia di un territorio immerso nella foresta equatoriale e dalla difficoltà di monitorare una moltitudine di sfollati in transito, un ulteriore ostacolo al contenimento dell’epidemia è posto dall’escalation del conflitto armato. Sin dall’insediamento dei primi centri di trattamento per Ebola ad agosto, violenze, omicidi e razzie da parte delle milizie si sono susseguiti con cadenza quasi giornaliera.

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Particolarmente gravi sono stati gli attacchi alle città di Beni, Oicha e Mabalako tra settembre e novembre e attribuiti all’ADF-NALU, con il rapimento di decine di bambini e la morte di 36 civili.

In uno di questi episodi l’edificio ospitante lo staff dell’OMS a Beni è stato colpito da una granata e il personale evacuato nella vicina città di Goma. I leader locali hanno indetto per protesta un periodo di sciopero e lutto denominato ville morte, durante il quale anche l’assistenza sanitaria e le attività di mobilizzazione sociale sono state rallentante, quando non addirittura sospese. Pur garantendo la massima operatività anche nelle zone più pericolose, gli operatori sono al momento costretti a lasciare ogni giorno i centri di trattamento prima del tramonto.

Con la risoluzione 2439 del 30 ottobre, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso “seria preoccupazione” sul deterioramento delle condizioni di sicurezza in cui opera la task force di risposta all’epidemia di Ebola, chiedendo esplicitamente a tutti i gruppi armati operanti nella regione di rispettare le leggi del diritto internazionale umanitario.

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D’altra parte, l’operazione militare congiunta lanciata in risposta dalle truppe dell’esercito congolese e dalla Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo (Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la Stabilisation en république démocratique du Congo – MONUSCO) ha ulteriormente esacerbato la situazione: tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre 35 civili, 12 soldati e 8 caschi blu sono stati uccisi per le strade di Beni, Oichia e Kididiwe e un elicottero delle Nazioni Unite colpito e costretto a un atterraggio d’emergenza.

Peraltro, la presenza dell’esercito congolese, accusato d’essersi macchiato più volte in passato degli stessi crimini oggi imputati ai ribelli, non ha fatto che aumentare il malcontento e la diffidenza in seno ai locali. Per questo motivo e per l’impossibilità di potersi rapportare ai membri di diverse fazioni con atteggiamento neutrale, gli operatori sanitari di alcune organizzazioni tra cui Médecins Sans Frontiéres (MSF) hanno rifiutato la scorta armata e hanno iniziato a muoversi con mezzi non contrassegnati da simboli governativi.

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Elezioni generali, tra disinformazione e populismi. Un virus letale che si trasmette per contatto diretto trova nella paura e nella disinformazione due potenti alleati. Con il diffondersi dell’epidemia e l’acuirsi del conflitto si è assistito al progressivo incremento di episodi ostili da parte delle comunità verso gli operatori sanitari, di riluttanza nel comunicare nuovi casi, adottare forme di sepoltura sicure e dignitose e sottoporsi alle cure mediche presso i centri di trattamento.

Per contro, sono in tanti a rivolgersi ai guaritori tradizionali o a recarsi presso la moltitudine di cliniche non ufficiali, proliferate nella regione in seguito al collasso delle infrastrutture nel corso di decenni di crisi umanitarie. Superstizione e teorie cospirazioniste (per cui Ebola sarebbe il prodotto di una stregoneria o uno strumento utilizzato ad arte per sterminare la popolazione) sembrano ottenere credito sempre maggiore e vengono persino incoraggiate da alcuni movimenti populisti nella campagna elettorale in corso.

Le elezioni generali sono indette per il 23 dicembre e vedranno ventuno candidati contendersi il ruolo di futura guida della nazione dopo i due lunghi mandati del presidente uscente, Joseph Khabila. Ritardata da questi più volte nel corso dei due anni precedenti, la data del voto non è più rimandabile, pena il rischio di scontri e violenze in tutto il paese. Eppure è facile immaginare come nello scenario attuale la chiamata alle urne di milioni di persone costituisca un pericoloso fattore di rischio per la trasmissione del virus (la stessa Liberia fu costretta a rimandare le elezioni presidenziali durante l’epidemia di Ebola occorsa in Africa occidentale).

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PHEIC o non PHEIC, questo è il dilemma. Lo stato di emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale (Public Health Emergency of International Concern, PHEIC) è una classificazione che pertiene solo alle crisi di eccezionale gravità ed è stato dichiarato finora soltanto in quattro occasioni (la pandemia di influenza suina del 2009, il ritorno della poliomielite nel 2014, l’epidemia di Ebola in Africa Occidentale del 2013-2016 e l’emergenza da virus Zika nel 2017).

Il 17 ottobre scorso, il Comitato di Emergenza dell’OMS si era riunito a Ginevra per valutare se attribuire tale status all’epidemia congolese, optando per non procedere in tal senso. Se, infatti, dichiarare una PHEIC avrebbe da un lato reso disponibili ingenti fondi e risorse umane, dall’altro avrebbe comportato una serie di misure restrittive come la chiusura delle frontiere e la sospensione dei voli e degli scambi commerciali, con effetti debilitanti sul già fragile assetto politico ed economico della Repubblica Democratica del Congo.

Tuttavia, alla luce dei segnali di deterioramento delle condizioni di sicurezza e della progressione dell’epidemia, lo stesso comitato si era riservato di riconsiderare le sue valutazioni in futuro. L’evolversi degli eventi induce a pensare che la dichiarazione dello stato di PHEIC sia prossima e inevitabile, e che tale innalzamento del livello di valutazione del rischio porterà sulla scena attori internazionali che finora si sono limitati a ruoli di consulenza e supporto. Tra questi, molto probabilmente, gli Stati Uniti.

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Nel 2014 l’amministrazione Obama giunse a schierare in Liberia reparti della 101st Airborne Division e della 48th Chemical, Biological, Radiological, Nuclear Brigade sotto l’egida dello United States Africa Command (USAFRICOM).

Le truppe furono impiegate per la costruzione dei centri di trattamento per Ebola e operarono al fianco del personale della United States Agency for International Development (USAID), del National Institute of Allergy and Infectious Diseases – National Institute of Health (NIAID-NIH), dello United States Army Medical Research Institute of Infectious Diseases (USAMRIID), dello United States Navy Naval Medical Research Center (NMRC) e dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC).

Questi enti annoverano tra le loro fila veterani che hanno fronteggiato tutte le precedenti epidemie di Ebola e che fino ad ora, per ragioni di sicurezza o forse anche per una scelta di disimpegno in politica estera dell’amministrazione Trump, non sono stati impiegati in prima linea. Nel frattempo, almeno due terzi dei nuovi infetti non sono riconducibili ad alcuna lista di contatti, segno che una percentuale importante dei contagiati sta sfuggendo al monitoraggio.

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L’epidemia è arrivata nella città di Butembo e si teme la sua estensione a Goma, metropoli da un milione di abitanti sulla linea di confine col Rwanda. La paura, invece, si è già protesa ben oltre: il 12 dicembre, La Tanzania ha arrestato e messo in quarantena 27 migranti irregolari. Il 13 dicembre ad Hannover, in Germania, una viaggiatrice febbricitante di ritorno dal Camerun diventa il primo ricovero ospedaliero come sospetto caso d’importazione, poi rivelatosi un falso allarme.

Nel volgere lo sguardo verso la Repubblica Democratica del Congo, la comunità internazionale non può ignorare le nuvole nere di una tempesta, auguriamoci non “perfetta”,  profilarsi all’orizzonte: si odono i tuoni di un aspro conflitto militare, s’intravedono i lampi di una difficile transizione politica e i fulmini di un’epidemia che rischia di diventare fuori controllo.

 

Foto: AFP, Reuters, Monusco, Ministero Sanità Congo RDC e US DoD

Per approfondire: Violence and Viruses: How a Poorly Armed Insurgency in the Congo Poses a Global Threat

 

 

Laurea con lode in Scienze Biologiche all'Università di Cagliari, dottorato di ricerca in Microbiologia medica e Immunologia alla Facoltà di Medicina dell'Università di Roma Tor Vergata, è ricercatore presso il Max Planck Institute of Biochemistry di Monaco di Baviera. Da oltre dieci anni svolge ricerche sulla biologia molecolare e strutturale dei virus Ebola e Marburg, per cui ha ricevuto premi e riconoscimenti internazionali. E' autore di diverse pubblicazioni scientifiche sui meccanismi di replicazione e inibizione della risposta immunitaria di questi virus e sullo sviluppo di agenti antivirali atti a contrastarli.

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