Difesa Europea: tanto rumore per (quasi) nulla?

 

 

 

Dopo un dibattito sulla difesa comune europea che preso il via (o per meglio dire ha ri-preso) il via dopo la disfatta di USA e NATO in Afghanistan, l’Unione Europea discute la costituzione di una forza militare di intervento rapido congiunta di circa 5mila militari da rendere operativa entro il 2025.

Una forza che possa essere dispiegata in aree di crisi in tempi rapidi e probabilmente anche senza il consenso unanime di tutti gli Stati membri, secondo quanto anticipato nei giorni scorsi da dall’agenzia Bloomberg, poiché la bozza propone una maggiore flessibilità con l’adozione della “astensione costruttiva” per consentire di non sostenere la decisione di impiegare la forza congiunta senza impedire agli altri partner di farlo.

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La tabella di marcia proposta in una bozza di 19 pagine che definisce la cosiddetta “Bussola strategica”, sarà presentata formalmente a una riunione dei ministri degli esteri il 15 novembre dall’alto commissario Josep Borrell.

Come riferisce Bloomberg “i leader dovrebbero discutere il progetto a dicembre e approvare una versione finale a marzo durante la presidenza francese dell’UE. Il presidente francese Emmanuel Macron ha reso prioritario lo sviluppo dell’autonomia strategica del blocco nella difesa. La bozza potrebbe ancora essere modificata prima di essere presentata ai ministri degli esteri”.

Non c’è dubbio che almeno un paio di eventi degli ultimi mesi abbiano messo in luce la necessità che l’Europa si smarchi almeno in parte dalla dipendenza dagli Stati Uniti in termini di difesa e sicurezza pur senza rinunciare alle prerogative previste dall’appartenenza alla NATO (comune a molti ma non a tutti gli stati membri della Ue).

Innanzitutto l’intera operazione afghana è stata gestita unilateralmente da Washington, inclusi i negoziati coi talebani e i termini del ritiro, caotico e tragicomico come ha dimostrato anche la fase di ripiegamento finale con un ponte aereo da Kabul che neppure la più accesa propaganda atlantista è riuscita a far passare per un successo.

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Un ponte aereo in cui ancora una volta la gestione delle operazioni e dell’aeroporto Hamid Karzai è stata totalmente nelle mani degli statunitensi (o al massimo degli anglo-americani) aspetto che ha creato non poche difficoltà ai velivoli degli altri alleati NATO (spesso costretti a ripartire vuoti) e ha mostrato ancora una volta quale considerazione abbiano degli alleati europei i vertici politici e militari statunitensi.

“Come europei non siamo stati in grado di mandare seimila soldati attorno all’aeroporto di Kabul per proteggere la zona. Gli americani ci sono riusciti, noi no”, ha dichiarato Borrell. La forza d’intervento dovrebbe essere in grado di proteggere gli interessi dell’Unione Europea quando gli americani non vogliono essere coinvolti, ha ricordato un articolo del generale Maurizio Boni su Analisi Difesa.

Se gli europei hanno molte ragioni per rimproverare l’unilateralismo degli USA va però ricordato che non sono riusciti a mettere a punto un piano per restare da soli in Afghanistan a sostenere il governo di Kabul con truppe e aiuti militari.

E anche durante le fasi più, nel 2011, di quel conflitto gli europei tutti insieme (membri UE ed esterni all’Unione) non sono riusciti a schierare più di 40 mila militari (su 2 milioni di soldati in servizio) per combattere i talebani contro i 100 mila messi in campo dagli USA.

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Un altro elemento che ha contribuito a raffreddare i rapporti militari tra le due sponde dell’Atlantico, è rappresentato dalla costituzione dell’AUKUS, l’intesa militare nel Pacifico tra Stati Uniti, Regno unito e Australia varata in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese (specie quello marittimo) ma che in termini politico-industriali ha avuto una immediata valenza anti-francese con l’annuncio di Canberra della cancellazione del contratto per 12 sottomarini convenzionali francesi tipo Barracuda modificato (nella foto sotto)  che verranno sostituiti, nelle intenzioni australiane, da 8 battelli a propulsione convenzionale di tipo britannico o statunitense.

E’ vero che il contratto per i Barracuda era da tempo agonizzante, travolto da ritardi, difficoltà tecnologiche e rapido incremento dei costi, ma non c’è dubbio che il suo abbandono senza preavviso e senza negoziati è stato vissuto a Parigi come un affronto gravissimo da parte non solo dell’Australia ma anche di USA e Gran Bretagna, rivolto non solo alla Francia ma all’intera Europa.

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Il tentativo francese di allargare  la “guerra fredda” con le potenze anglosassoni all’intera UE ha avuto un certo successo ed è perfettamente in linea con i numerosi tentativi effettuati oltralpe di varare organismi multinazionali europei da porre evidentemente sotto l’egida francese, dalla Task Force Takuba in Malì all’operazione EMASOH nel Golfo Persico fino alla European Intervention Initiative (EI2) proposta da Macron nel 2017, varata nel 2018 e a cui l’Italia ha aderito nel 2019.

La forza d’intervento messa oggi sul tavolo della politica di difesa europea rappresenta quindi un successo francese non a caso mal digerito dalla NATO che in più occasioni ha espresso la volontà di vedere una dimensione militare europea complementare e non alternativa all’Alleanza Atlantica.

 “La collaborazione Nato-Ue ha raggiunto un livello senza precedenti, spero rafforzeremo la collaborazione in ogni area, come esercito, resilienza, impatto di sicurezza del cambiamento climatico, Dobbiamo garantire che il nostro approccio alla sicurezza resti coerente. Accolgo con favore i maggiori sforzi dell’Ue sulla difesa. La Nato chiede da tempo agli alleati europei di investire di più e dare maggiori capacità di alto livello. Questi sforzi, tuttavia, non dovrebbero duplicare la Nato, ciò che serve sono nuove capacità, non nuove strutture” ha dichiarato in conferenza stampa a fine ottobre il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg.

Sul piano politico-strategico è inevitabile che ogni progetto di difesa comune europea sia almeno parzialmente alternativo alla NATO, dall’altro l’entità dei progressi della Ue in questo settore noi dovrebbero preoccupare eccessivamente gli atlantisti.

Anche questa volta, come è accaduto per tutti i progetti militari Ue dal “corpo d’armata europeo” di 60 mila militari ipotizzato venti anni or sono dopo le operazioni della NATO in Kosovo (effettuate da un corpo d’armata di quelle dimensioni) ai più modesti “battlegroup”, i limiti non mancano.

La bozza rivelata da Bloomberg cita una forza UE di circa 5.000 effettivi, quindi a livello brigata, operativa entro il 2025 e composta da alcuni gruppi tattici a livello reggimento di circa 1.500 militari ai quali verrebbero aggiunti assetti per il trasporto strategico, la protezione delle forze e l’intelligence.

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L’obiettivo è far fronte “all’intera gamma di compiti militari di gestione delle crisi, ad esempio una missione di salvataggio ed evacuazione o un’operazione di stabilizzazione in un ambiente ostile”.

Da un lato è evidente che la struttura ipotizzata con una forza di 5 mila militari è ancora una volta ispirata dal recente esempio USA/NATO. Il presidio dell’aeroporto di Kabul durante il ponte aereo d’agosto è stato gestito da una forza militare statunitense di 6 mila uomini e molti in Europa si rammaricarono all’epoca di non aver potuto mettere in campo uno strumento simile anche se diverse nazioni europee dislocarono nella capitale afghana unità militari idonee a proteggere le operazioni di evacuazione.

In termini operativi viene però spontaneo chiedersi che tipo di ambizioni sia in grado di trasmettere un’Unione Europea che dopo un dibattito così elevato e acceso riesce a partorire solo la messa a punto, per giunta tra quattro anni, di una forza così limitata.

Una forza idonea a proteggere un’evacuazione aerea in ambiente non ostile (come a Kabul), a offrire aiuto a popolazioni colpite da calamità naturali oppure a costituire una forza d’interposizione tra due contendenti in armi ma che in termini bellici (termine rimosso da tempo dal dibattito europeo) potrebbe risultare sufficiente solo a compiere operazioni limitate come il controllo dio un’isola o di un’area abitata o di una porzione di territorio.

Il tutto a una distanza ragionevole dal continente europeo considerando i limiti di proiezione strategica e di trasporto logistico a lungo raggio di quasi tutti gli stati membri. Insomma, in termini numerici l’impressione è che “la montagna stia per partorire un topolino”, un più con un forte ritardo rispetto alle urgenze lamentate da molti l’estate scorsa sull’onda emotiva della disfatta di Kabul.

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Non devono poi sfuggire altri elementi di criticità. Innanzitutto sarà difficile trovare convergenza tra i 27 membri su missioni militari da eseguire nell’interesse comune dal momento che gli interessi nazionali di molti stati della Ue sono contrastanti se non divergenti tra loro. Non a caso finora l’Unione è riuscita a varare solo missioni addestrative o di vigilanza in Africa, di nessun profilo operativo e di limitato impatto sul teatro operativo.

Inoltre, in un’Europa dove le spinte egemoniche di Francia e Germania si sono fatte ancor più pressanti dopo la Brexit, molti partner soprattutto in Europa Orientale e Mitteleuropa temono che una più concreta dimensione militare europea possa indebolire la NATO, che per le sensibilità di alcuni stati del cosiddetto “East Flank” resta l’unica garanzia contro le pressioni russe.

“Una posizione forte della UE, il rafforzamento della difesa comune non deve avvenire a scapito dell’Alleanza atlantica ma creare effetti di sinergia”, ha affermato in ottobre il presidente polacco Andrzej Duda, per cui l’autonomia strategica europea deve includere il rispetto per gli Stati nazionali”. Una posizione simile è stata espressa dal presidente lettone. “I legami transatlantici ci aiutano a plasmare la nostra autonomia strategica che deve avvenire in stretta collaborazione con Stati Uniti e Canada. La NATO è l’alleanza di difesa di maggior successo. La nostra forza di difesa deve contribuire alla NATO”, ha affermato, Egils Levits

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La bozza del documento della UE citata da Bloomberg evidenzia come “mentre la NATO è e rimarrà il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri, i nostri concorrenti strategici non dovrebbero mettere in discussione la volontà comune dell’UE di rispondere ad aggressioni e attività dannose contro nessuno dei nostri Stati membri”. Inoltre il documento impegna la UE a tenere frequenti colloqui strategici con la NATO e definisce “essenziale” la partnership con gli Stati Uniti.

Parole tranquillizzanti ma che lasciano aperte due questioni. La prima è relativa alla “sovranità” dal momento che la Ue non è una federazione di stati nè i suoi membri hanno una politica estera e di difesa comune mentre ogni singolo membro ha interessi e priorità nazionali che rischiano di impedire di gestire congiuntamente operazioni militari significative.

Non a caso la Commissione Ue ha in più occasioni precisato che “attualmente non si discute sulla creazione di un esercito europeo”, strumento militare congiunto peraltro non previsto dalla Cooperazione strutturata permanente (PESCO).

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Infine, in caso di impiego bellico della forza d’intervento europea anche in teatri operativi a bassa intensità (come l’Afghanistan o il Sahel), occorrerà valutare la “tenuta” dei singoli stati membri di fronte alle perdite subite dai propri contingenti e persino alle perdite inflitte al nemico e ai danni collaterali provocati non intenzionalmente tra i civili.

Tutti elementi che in Europa e in Occidente in generale hanno un impatto sociale e politico crescente, così devastante da rischiare probabilmente a breve termine di impedirci di combattere togliendo di fatto ai governi di poter ricorrere a opzioni belliche. Un elemento di debolezza che già oggi sta avvantaggiando i nostri nemici.

Senza la capacità di accettare le conseguenze inevitabili della guerra non è possibile sostenere un conflitto nonostante la potenza e l’alta tecnologia delle armi a disposizione. Per questo i limiti militari dell’Europa non sono solo politici, strutturali o finanziari ma sono di natura soprattutto sociale. Se non siamo in grado di sopportare perdite anche significative in battaglia difficilmente troveremo una ragione o una causa per cui valga la pena combattere.

@GianandreaGaian 

 

 

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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