Israele vuole distruggere Hamas ma rischia di farne un martire

 

In questi giorni l’attenzione internazionale è puntata sull’inevitabile “operazione di terra” di Tsahal. Attenzione manifestata da troppi con un atteggiamento quasi da tifoseria calcistica e non con l’onestà intellettuale di considerare torti e ragioni di tutte le parti in causa o le differenze tra la “causa” palestinese e quella di Hamas (e dei suoi sponsor esterni).

Da molti sento interpretare la giusta cautela israeliana nel lanciare una massiccia operazione terrestre come un segno di debolezza o di mancata determinazione. C’è persino chi dice “ci sono 300.000 riservisti richiamati schierati intorno a Gaza, se non li si usa li si rimandi a casa”, come se fosse saggio assumere decisioni avventate sulla base della pressione delle piazze.

Dopo i fatti del 7 ottobre, Israele non può non condurre una profonda operazione di “bonifica” della Striscia di Gaza e ciò comporterà inevitabilmente, prima o poi, una operazione di terra. Peraltro, una tale operazione in area densamente urbanizzata e abitata si presenta come estremamente complessa e, ove non accuratamente preparata, comporterebbe tempi molto lunghi. Stalingrado e, più recentemente, Bakhmut dovrebbero averci insegnato qualcosa al riguardo. Soprattutto, però, comporterebbe ingenti numeri di vittime civili inermi, inclusi quei bambini, donne e anziani che sono utilizzati come scudi umani dai terroristi di Hamas, nonché perdite non indifferenti anche tra le forze israeliane che hanno già ammesso oltre 300 caduti.

Il governo di Gerusalemme e soprattutto, la leadership militare israeliana sono sicuramente consci che più a lungo si prolunga una operazione di terra a Gaza (con le TV di tutto il mondo che mostrino 24 ore su 24 le inevitabili vittime civili) più calerebbe il già tiepido supporto delle opinioni pubbliche occidentali allo Stato Ebraico. Le inevitabili perdite umane tra gli ostaggi e tra i militari di Tsahal rischierebbero di annacquare anche il supporto domestico all’operazione.

Ancor più di queste considerazioni, di natura forse tattica, occorre chiedersi se dal punto di vista strategico un’affrettata operazione di terra possa risolvere il “problema Hamas”.

L’obiettivo prioritario per Israele dovrebbe essere, a mio avviso, distruggere agli occhi della popolazione palestinese la credibilità sia di Hamas sia dei suoi burattinai esterni alla Striscia. Ovvero, dimostrare a tutti i palestinesi, sia a Gaza sia in Cisgiordania, che Hamas non è in grado né di proteggerli né di garantire loro condizioni di vita minime. Ovvero, si dovrebbe tendere a minare la credibilità dell’organizzazione politico-militare-terroristica che di fatto tiene in ostaggio gli abitanti della Striscia e ad esporre pubblicamente la viltà dei “burattinai” che, dalle loro sicure residenze a Doha o a Teheran, chiedono a vecchi, donne e bambini della Striscia di versare il proprio sangue “per la causa”.

Un tale approccio, però, richiede tempo, determinazione e resilienza. Tempo durante il quale la Striscia deve essere tenuta sotto continua pressione psicologica prima ancora che militare, per tentare di fomentare il sentimento di rivolta anti-Hamas nella Striscia. Coerente con un tale approccio è anche l’interruzione dei rifornimenti di carburante e acqua da Israele e la Striscia, come lo sono i bombardamenti e chirurgiche operazioni anche terrestri condotte all’interno della Striscia, offrendo idealmente la possibilità ai “non combattenti” di uscire dalla Striscia (cosa tutt’altro che facile).

È chiaro che l’indiscutibile successo ottenuto il 7 ottobre nel dimostrare l’imprevista vulnerabilità di Israele abbia galvanizzato l’intera popolazione palestinese, anche quella più scettica nei confronti di Hamas. Ora è necessario per Israele riuscire a invertire tale trend nella percezione dei palestinesi.

In tale ottica, Israele, oltre a tenere a bada le intemperanze dei propri coloni in Cisgiordania e contrastare fermamente Hezbollah a nord, dovrebbe mirare ad approfondire il solco oggi troppo tenue tra la popolazione civile della Striscia e i miliziani di Hamas e far trionfare l’idea che non vi sia più possibilità di vita sicura in una Gaza controllata da Hamas. Ciò anche a costo di consentire eventualmente l’evacuazione controllata dei miliziani di Hamas dalla Striscia verso paesi disposti ad accoglierli (ipotesi al momento decisamente remota).

Per farlo occorre, come si diceva, mettere in conto che non sarà purtroppo possibile uno scambio generalizzato degli ostaggi con tutti i terroristi in prigione e che quindi non sarà verosimilmente possibile salvare tutti gli ostaggi.

Sarà necessario uno sforzo protratto nel tempo al fine di ridurre al minimo la possibilità che le diverse comunità palestinesi, in primis, e quelle islamiche, in generale, possano in futuro percepire i combattenti di Hamas, sia pur sconfitti militarmente, come martiri anziché come criminali fanatici.  Se, invece, sia pure dopo una vittoriosa campagna militare israeliana, i miliziani di Hamas uccisi o catturati venissero considerati come dei “martiri” allora l’obiettivo strategico che si proponevano i mandanti del massacro del 7 ottobre sarebbe stato pienamente conseguito.

Foto: IDF e Telegram

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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