Ucraina un anno dopo: ci avviciniamo a un bivio?

 

 

È passato solo un anno dall’inizio dell’attacco russo all’Ucraina, ma in relazione a quelle che parevano alcune nostre “sicurezze” dei primi mesi di conflitto sembra trascorso un secolo. Ricordiamo tutti i servizi di informazione che seguivano quasi in tempo reale l’evoluzione delle operazioni sul campo, con l’invito di esperti da cui più che valutazioni tecniche i presentatori televisivi chiedevano pronostici come si farebbe ad un chiromante di fronte ad una opaca sfera di cristallo.

Molti all’epoca erano convinti che in un senso o nell’altro il conflitto “combattuto” sarebbe durato poco, per passare poi la mano al negoziato diplomatico. Settantasette anni di pace in Europa ci facevano pensare che il ricorso alle armi per risolvere contenziosi potesse essere solo una eccezione nel vivere civile degli europei e che ove, malauguratamente, tale eccezione si fosse verificata avrebbe comunque avuto una durata limitata. Così non è stato.

Da un anno si combatte e ora nessuno più immagina una fine dei combattimenti a breve termine, tanto che entrambe le parti stanno investendo pesantemente in attività organizzative per la condotta di future operazioni, attività che non potranno fornire risultati pratici sul campo per molti mesi.

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È vero che se ci si fosse guardati intorno con maggiore umiltà già all’epoca, non avremmo potuto non accorgerci come in molte aree del mondo la conflittualità (per motivi etnici, confessionali, di confine ecc) fosse divenuta una costante che si protrae senza soluzioni per decenni. Si pensi al Sahel, all’Iraq, alla Siria, all’Afghanistan, alla Libia, al Sudan solo per limitarci a quelle situazioni a noi più prossime o dove, comunque, noi occidentali siamo stati forse parte più del “problema” che non della “soluzione”.

Certo con la pretesa nostra “superiorità morale” ritenevamo che queste fossero cose da paesi in via di sviluppo e che non potessero avvenire a casa nostra.

Un altro tabù infranto è che anche nella civilissima Europa e nell’ormai civilissimo XXI secolo gli eserciti si possano ancora affrontare senza tregua e senza regole per concetti che a noi appaiono desueti e in fondo vagamente etnico-nazionalistici. Concetti come “integrità territoriale” e “autodeterminazione dei popoli”, che probabilmente non facevano più parte dell’inventario dei nostri valori. Il rovinoso infrangersi di questo tabù ci ha lasciato incapaci di leggere e comprendere la crisi in atto, alla luce dei parametri concettuali cui ci eravamo abituati. Ci siamo ritrovati come uno studente che tentasse di risolvere un problema di trigonometria sferica facendo ricorso alle regole della trigonometria piana.

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Eravamo anche convinti che l’innovazione tecnologica avanzata di cui noi disponiamo avrebbe cambiato il modo di combattere, trasformando un sanguinolento mattatoio in un’asettica sala operatoria. Credevamo che il ricorso a droni, missili, artiglierie a lungo raggio, avrebbe consentito sì di colpire il nemico, ma da lontano, stando al sicuro e senza sentire i lamenti delle vittime dei nostri colpi. Quasi si trattasse di un sofisticato videogioco che ci consentisse di salvaguardarci sotto il profilo sia fisico che psicologico. Dodici mesi di guerra in Ucraina hanno dimostrato (anche a chi non avesse voluto imparare niente dalle esperienze in Iraq e in Afghanistan) che ciò non è possibile, che la guerra chirurgica, senza sporcarsi le mani e la coscienza, senza vittime innocenti e senza rischi non è possibile.

Pensavamo che la guerra, nell’epoca dei caccia super tecnologici, dei missili intercontinentali, delle artiglierie a lungo raggio, dei carri armati, fosse manovra e velocità, pensavamo insomma che mutatis mutandis il tutto si sarebbe risolto in rapide ed eroiche “cariche di cavalleria”, ma cariche telecomandate da un monitor in uno shelter che ci mantenesse al caldo al sicuro.

Invece, vediamo di nuovo immagini che ci riportano indietro alle fotografie sbiadite della Prima guerra mondiale. Nessuna brillante manovra napoleonica, ma solo l’estenuante ed esasperante lentezza della guerra d’attrito, dove si alternano piccoli atti tattici locali, non risolutivi ma caratterizzati quasi sempre da perdite immani. Gli ucraini ci forniscono quantità impressionanti di dati (non certo attendibili) sulle ingenti perdite subite dai russi in attacchi senza senso. I russi forniscono dati (anch’essi assolutamente non attendibili) sulle ingenti perdite subite dagli ucraini in difese senza speranza.

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La realtà, da un lato e dall’altro, è una guerra di trincea che pensavamo fosse relegata con le sue brutture nella nostra preistoria. Combattimenti senza gloria condotti in fetide trincee dove le lacrime si mischiano al sudore, il sangue agli escrementi, il fango ai cadaveri che non possono trovare tempestiva sepoltura.

Una guerra di attrito che ci ricorda quella delle prime undici battaglie dell’Isonzo combattute da giugno 1915 a agosto 1917. Battaglie combattute praticamente senza spostamenti significativi del fronte, ma con centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti.

Un altro tabù che sta per infrangersi è quello che voleva attribuire regole quasi “cavalleresche” alla guerra. Dopo la fine del bipolarismo c’eravamo probabilmente convinti che la pace e la sicurezza internazionale fossero a portata di mano e che, al massimo, potessero servire quelle che gli anglosassoni chiamano “constabulary operations” (ovvero operazioni di polizia internazionale).

In quest’ottica, ci si è adoperati per imporre delle regole che rendessero meno disumano l’uso della forza in operazioni militari. Ne sono risultate alcune convenzioni internazionali sottoscritte da molte nazioni a cavallo della fine del secolo scorso. Ne sono un evidente esempio le Convenzione di Ottawa e di Oslo. La Convenzione di Ottawa del 1997 sancisce la messa al bando dell’uso, lo stoccaggio, la produzione ed il trasferimento di mine antiuomo e per la loro distruzione. La Convenzione di Oslo del 2008, invece, vieta l’uso, la detenzione, la produzione e il trasferimento di munizioni a grappolo e impone la distruzione degli stock esistenti.

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Si tratta di convenzioni tendenti a impedire /contenere la possibilità di vittime non militari causate dalla permanenza di ordigni inesplosi in quelle che erano stati campi di battaglia.

La ratio di tali Convenzioni è eticamente inoppugnabile. Purtroppo, però, non sono mai state ratificate da paesi che hanno contenziosi in corso (le due Coree, Israele, molti paesi arabi, Israele, India, Pakistan, ecc) né soprattutto dalle principali potenze militari mondiali (USA , Cina e Russia). In caso di conflitto, poi, vengono regolarmente disattese da tutti. Purtroppo, queste Convenzioni, per quanto dettate dai principi più nobili, possono oggi apparirci poco realistiche, un po’ come il Patto Kellogg-Briand del 1928 (“General Treaty for Renunciation of War as an Instrument of National Policy). Trattato che di fatto metteva al bando la guerra come strumento di soluzione di controversie internazionali e che era stato ratificato prima del secondo conflitto mondiale da ben 63 nazioni, tra le quali l’Italia fascista, la Germania nazista, il Giappone, gli Stati Uniti d’America, il Regno Unito e la Francia. La Storia ci ha dolorosamente mostrato quanto poco efficace e poco realistico quel Patto fosse. 

Purtroppo, i tentativi di trasformare i conflitti in contrapposizioni governate da regole ben definite, come fossero un incontro di scherma, finiscono regolarmente per fallire quando siano in gioco gli interessi vitali dei paesi.

Ci sono anche altre convinzioni che nei primi mesi di questa guerra che ci hanno confortato e che ora forse dobbiamo rivedere in un’ottica meno rassicurante. Eravamo convinti di poter contribuire alla salvezza dell’Ucraina senza essere coinvolti direttamente sul terreno. Pensavamo che la nostra potenza commerciale e il seguito di cui l’Occidente disponeva nel mondo fossero tali che la sola imposizione alla di Russia severe sanzioni economiche avrebbe portato all’implosione del regime putiniano in breve tempo.

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Sicuramente, come avevamo già scritto su queste pagine (Le sanzioni economiche non incidono sulle operazioni militari russe – Analisi Difesa) le sanzioni occidentali danneggiano l’economia russa, ma non la strangolano. Abbiamo dovuto constatare che, nonostante le minacce occidentali di ritorsione economica, Cina, India, praticamente tutta l’Asia (tranne Giappone, Sud Corea e Taiwan), tutta l’Africa, tutta l’America Latina continuano a commerciare (direttamente o per il tramite di intermediari) con Mosca.

Molti si aspettavano che le sanzioni economiche avrebbero portato il popolo russo a ribellarsi contro il Cremlino. Così non è stato. Peraltro, da decenni aspettiamo senza successo di vedere in Iran o altrove, un regime change provocato soltanto dalle sanzioni economiche occidentali. Si pensava che anche se non fossero bastate sanzioni economiche a indebolire la Russia, si poteva armare ed equipaggiare gli ucraini. In Occidente si riteneva di poter fornire armamenti ed equipaggiamenti superiori per prestazioni a quelli di cui disponevano i russi e si confidava sul terreno che la qualità avrebbe compensato la quantità.

Si voleva credere, in fondo, che gli ucraini con il nostro aiuto in termini di sanzioni economiche alla Russia e di approvvigionamento di armi e munizioni potessero farcela da soli. Purtroppo, nonostante le intrinseche debolezze e vulnerabilità dell’apparato militare russo, finora questo cambio di passo non si è visto. Armai e munizioni si ricordi, la cui concessione man mano che si va da sistemi basici a sistemi più sofisticati e da armamenti con una connotazione esclusivamente difensiva (a esempio sistemi di difesa contraerea) a sistemi più duttili nell’impiego ( missili, carri armati, aerei) incontra diversi distinguo e discussioni di lana caprina.

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Distinguo e titubanze da parte occidentale comprensibili e sotto molti aspetti condivisibili. Di fatto, però, i sistemi più sofisticati (ad esempio carri armati di seconda generazione) arrivano con il contagocce e in alcuni casi solo dopo essere stati privati di alcune delle loro caratteristiche più preziose. Anche questo perfettamente comprensibile, ma ciò di fatto priva di vero valore le altisonanti promesse fatte nell’ambito di diversi contesti multinazionali.

In sostanza, la situazione oggi è tale che, come Occidente, dobbiamo rivedere molte convinzioni in cui ci siamo cullati negli ultimi trent’anni, ovvero che la nostra strapotenza economica e il nostro vantaggio tecnologico ci avrebbe consentito di combattere le guerre sempre contro nemici tecnologicamente ed economicamente molto inferiori a noi e che ciò ci avrebbe consentito, ove proprio non fosse bastata solo la deterrenza, di confrontarci con pochi rischi in un conflitto reso più umano e meno crudele da convenzioni che comunque limitano l’uso della forza brutale.

Non abbiamo voluto far caso al livello di violenza raggiunto in situazioni conflittuali esterne all’Europa e forse abbiamo ritenuto che un tale livello di violenza nel nostro continente non si sarebbe più ripetuto.

Analogamente ci siamo cullati nell’idea che proprio grazie a tale presupposta superiorità tecnologica ed economica avremmo potuto difendere l’Ucraina senza intervenire “boots on the ground” . Insomma, sembra che si fosse sicuri che bastasse limitarsi a supportare Kiev militarmente ed economicamente sino a quella che consideravamo essere l’inevitabile e sicuramente prossima implosione del regime moscovita. Così non è stato e probabilmente dobbiamo prendere atto che così non sarà almeno in un futuro prossimo.

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Sia chiaro, i russi non stanno vincendo, ma neanche gli ucraini stanno vincendo e non si prospettano all’orizzonte blitzkrieg da nessuna delle due parti. Servono a entrambe le parti dei rinforzi. L’Ucraina avrebbe la possibilità di generarne? Difficile. La Russia forse sì, anche se si tratterebbe, a differenza degli ucraini, probabilmente di uomini poco motivati. Sappiamo anche che, soprattutto in una lunga guerra di attrito, oltre alla qualità serve e molto anche la quantità.

Inoltre, anche i principi più solidi in USA e in Europa potrebbero andare affievolendosi con il tempo e a Washington la maggioranza repubblicana nel Congresso non appare disponibile a continuare a firmare assegni in bianco né a Biden né a Zelensky.

Soprattutto per gli USA c’è il pericolo Cina e molti incominciano a pensare che non si possa perdere ulteriore tempo con i problemi dell’Ucraina e per contenere uno “Zar” ormai molto debilitato e che potrebbe non essere ancora opportuno far cadere, non avendo ancora piani sicuri per il “dopo Putin”.

La pubblicità data in questi giorni alla questione dei presunti “palloni spia” cinesi potrebbe far parte di una strategia comunicativa tendente a re-indirizzare l‘opinione pubblica statunitense verso i pericoli che emanano da Pechino, facendo passare in secondo piano le promesse di Biden a Kiev, cui forse si pensa di non tener fede con la determinazione che era stata promessa.

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I tempi lunghi di un conflitto di attrito non consumano solo le truppe al fronte . Erodono anche il sostegno popolare alle operazioni e lo erodono di norma di più quando le popolazioni civili stesse sono sotto il fuoco nemico.

Il rischio sempre più palpabile è che si stia avvicinando il momento in cui potrebbe apparire insufficiente il supporto in termini di aiuti economici e militari che l’Occidente sta fornendo a Kiev.

Ove tale ipotesi si dovesse verificare, l’Occidente dovrebbe scegliere tra due opzioni entrambe difficili e non prive di conseguenze pesantemente negative durature negli anni. Potremmo essere posti di fronte alla scelta tra rimanere fedeli ai principi irrinunciabili finora dichiarati in tutte le sedi politiche o abbandonare gi ucraini al loro destino. Nel primo caso potrebbe essere necessario affiancare con propri uomini i soldati ucraini sul terreno, anche in quelle trincee di sangue, dolore e ignoto eroismo che pensavamo per sempre confinate nei libri di storia.

Oppure abbandonare gli ucraini, come d’altronde è stato fatto con i sudvietnamiti, con gli iracheni dopo l’abbattimento di Saddam, con i libici dopo l’abbattimento di Gheddafi, con i curdi, con gli afghani…. Insomma, bene o male, orma il mondo si è abituato alla breve durata dei nostri “irrinunciabili ideali” di solidarietà. Speriamo che non si debba arrivare a quel bivio, ma la possibilità di trovarcisi di fronte è sempre meno remota e forse sarebbe prudente incominciare a prepararvisi.

Foto: Gian Micalessin, Ministero Difesa Russo, Ministero Difesa Ucraino e RIA-FAN

 

 

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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