Le sanzioni economiche non incidono sulle operazioni militari russe

 

Con molta enfasi vengono regolarmente esaltate le “drammatiche” conseguenze che le sanzioni adottate dall’UE avranno sul funzionamento della macchina bellica russa. Prendiamo atto che fosse molto complesso assumere decisioni drastiche da parte di questa UE litigiosa, ingessata da veti incrociati, divisa in merito alla percezione della crisi ucraina tra le visioni decisamente diverse che se ne hanno ai suoi confini orientali e occidentali.

Peraltro, non si può non rilevare come il ricorso alle sanzioni, di per sé, non possa avere un impatto sulle operazioni militari in corso, almeno in tempi medio – brevi.

Si consideri, al riguardo, l’ultimo accordo raggiunto dall’UE in merito al bando del petrolio russo. Accordo che certamente potrà essere ritenuto, dai più benevoli, politicamente significativo per dimostrare la coesione della UE. Peraltro, in riferimento alla reale possibilità di incidere sulla condotta di operazioni militari russe in Ucraina, forse se ne sono sopravvalutate le implicazioni.

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Si lasci pur perdere che si tratta di un divieto d’importazione che avrà effetto solo da gennaio 2023 per i trasferimenti via nave e da marzo per quelli via terra, queste ultime con tutta una serie di eccezioni a favore di alcuni paesi che, più di altri, sono stati decisi nel sostenere le proprie esigenze nazionali (Repubblica Ceca, Bulgaria, Ungheria).

Bando all’import petrolifero russo che entrerà in vigore solo nel 2023 (se entrerà davvero in vigore) che, peraltro, già da subito ha comportato un aumento del costo del greggio e dei relativi introiti russi. Divieto che comunque appare assolutamente risibile per quanto attiene al trasporto marittimo, per sua natura estremamente flessibile (in quanto da subito, senza alcuna esigenza di lavori infrastrutturali preventivi, una petroliera può facilmente modificare la propria rotta) e, soprattutto, non tracciabile (il carico venduto da Mosca a una nazione asiatica o africana potrà poi facilmente essere da questa ceduto a qualsiasi nazione UE, in barba a qualsiasi sanzione).

Si continui per “carità di Patria” anche a ignorare che le sanzioni, da sole, non abbiano mai portato a un “regime change”. Non lo hanno fatto nel caso delle sanzioni adottate nel 1935 dalla Società delle Nazioni nei confronti dell’Italia fascista, che hanno invece gettato nelle braccia di Hitler, come oggi rischiano di spingere la Russia tra i tentacoli di Pechino.

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Peraltro, anche in tempi più recenti le sanzioni economiche volute dagli USA non pare abbiano portato ad alcun cambio ai vertici di Venezuela, Iran, Nord Corea, Cuba, o nella stessa Russia dopo l’annessione non riconosciuta della Crimea nel 2014. Peraltro, si continua a ripetere che le sanzioni servono per “impedire a Putin di finanziare la sua guerra”.

Obiettivo meritorio che potrebbe essere forse conseguito nel caso di un conflitto che dovesse protrarsi per diversi anni, ma che appare illusorio pensare di raggiungere tempi brevi. Infatti, fattore temporale a parte, in che modo questo tipo di sanzioni dovrebbe incidere sulla capacità bellica della Russia?

Si sa che la condotta di una guerra porti al consumo di enormi risorse. Il punto è, però, considerare quante di tali risorse siano già nella disponibilità di chi le dovrà consumare. Ovvero, fino a quale punto gli introiti economici che le potrebbero venir meno in relazione alle sanzioni possano condizionare l’afflusso costante delle risorse necessarie per alimentare i combattimenti delle truppe di Mosca.

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La principale risorsa di cui la guerra ha bisogno è il capitale umano. Non solo per le perdite che si soffrono, ma anche per la sottrazione dei combattenti alle altre attività produttive che in tempo di guerra sono sotto stress. La Russia, però, al momento non neppure attivato una mobilitazione su larga scala, limitandosi a reclutare volontari e richiamare poche migliaia di riservisti e dispone di forze militari in parte ancora non esposte ai combattimenti.

Anzi, in questo settore potrà incontrare molte meno difficoltà dell’Ucraina. Altre risorse essenziali sono i mezzi da combattimento, i sistemi d’arma e i munizionamenti necessari per integrare quelli al fronte e rimpiazzare quelli distrutti, perduti o consumati.

La Russia in questi settori risulta autosufficiente, in quanto  dispone di una collaudata industria della Difesa e di scorte di armi e munizioni impressionanti. Tradizionalmente la Russia è stata negli ultimi vent’anni il secondo esportatore di armi al mondo, piazzandosi al terzo posto solo nel 2021, sorpassata dall’industria bellica francese, e vendendo soprattutto a Cina, India, Vietnam, Egitto, in diversi paesi asiatici, mediorientali e africani: tutte nazioni con cui Mosca continuerà a commerciare senza problemi.

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Pertanto, la Russia sembrerebbe disporre in proprio della capacità di integrare e potenziare quanto le sue forze impiegano sul fronte, senza bisogno di acquisire dall’estero. Possibilità cui anche in passato la Russia ha fatto ricorso molto di rado se non per alcune componenti.

Si consideri che la Russia, oltre ad essere un’importante esportatrice di combustibili fossili e prodotti energetici, ha un’importante esportazione metallurgica (acciaio, di cui Mosca è il 5° produttore al mondo, rame, leghe di rame, nichel) e prodotti dell’industria chimica.

Ovvero, Mosca anche senza rivolgersi al mercato esterno dispone in abbondanza di quasi tutto ciò che può servire alla sua industria bellica. Le terre rare, che servono per alcune componentistiche di alta tecnologia, possono agevolmente esserle fornite dalla Cina, che già oggi, con un interscambio valutato in oltre 110 miliardi di dollari, è il suo primo partner commerciale.

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Essendo anche esportatrice di prodotti alimentari e materie prime per la loro produzione, la Russia appare autosufficiente anche nel settore alimentare e le sanzioni non potranno avere impatto su questo aspetto.

In sintesi, le varie tranche di sanzioni economiche che la UE sta faticosamente adottando, tra veti e contro-veti, serviranno sicuramente a impoverire la Russia e a far montare un certo malcontento soprattutto nelle classi più abbienti del paese. Nel lungo termine, si intendono anni, potrebbero forse portare la Russia alla bancarotta, ove non intervenisse in suo favore la Cina.

Peraltro, le sanzioni da sole non serviranno certamente a ridurne le capacità militari nel breve termine e di per sé non avranno effetti sui combattimenti, a meno che il conflitto si protragga per anni.

 

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Quando questo conflitto, che si prospetta verosimilmente abbastanza lungo, volgerà al termine, l’Europa si ritroverà ai propri confini un’Ucraina pesantemente distrutta di cui dovrà inevitabilmente finanziare la ricostruzione mentre gli USA, prevedibilmente, si impegneranno in maniera limitata al riguardo, lasciando agli europei il carico economico maggiore, come è d’altronde avvenuto in Bosnia Erzegovina e in Kosovo.

Tutto ciò in un contesto in cui Nord Africa e Medio Oriente sempre più impoveriti e probabilmente ulteriormente destabilizzati, premeranno alle porte della UE, in termini non solo di migrazioni ma anche di proiezione delle loro instabilità interne.

In questa situazione, già difficile da gestire, sarebbe saggio interrogarsi circa la capacità dell’UE di coesistere con una Russia in bancarotta e preda delle lotte di potere intestine praticamente inevitabili ove (come molti a Washington, a Londra, a Varsavia e altrove si augurano) le sanzioni dovessero condurre alla caduta dell’attuale leadership autocratica.

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Ci si augura che a Bruxelles e nelle principali capitali europee si stia valutando quanto un simile quadro di situazione potrà gravare sull’UE e sulla sua coesione in termini di equa distribuzione del carico finanziario delle ricostruzioni, di capacità di gestione della pressione migratoria, nonché di rispondere unitariamente ai prevedibili appetiti cinesi di fare acquisti di aziende europee a prezzi di saldo.

È urgente una seria riflessione circa questi sviluppi non troppo lontani anche in Europa, in quanto si può essere certi che a Pechino e a Washington da tempo vi stiano già pensando.

 

Foto: Ministero Difesa Russo, Ministero Difesa Ucraino e RusVesna

 

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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