Italia e Albania unite nel controllo dell’immigrazione irregolare

 

Il recente Protocollo  in materia di rafforzamento della collaborazione migratoria affonda le sue radici in consolidati rapporti di amicizia tra l’Italia e l’Albania iniziati con la caduta del regime del dittatore  Henver Hoxha. Ai primi anni Novanta, per fronteggiare un improvviso e massiccio esodo verso le nostre coste, stabilimmo forme di cooperazione con Tirana stipulando accordi dedicati. In quegli anni i rapporti italo-albanesi raggiunsero un eccellente livello, ma successivamente l’Albania allargò la cerchia dei suoi partner privilegiati. Da qualche tempo, i due Paesi hanno rinsaldato i reciproci legami, a riprova di una relazione di buon vicinato   esistente da secoli.

 

I precedenti 

Varie intese sono infatti state stipulate negli anni Novanta, tra cui, la più importante, è l’Accordo del 13 ottobre 1995 di amicizia e collaborazione (ratificato con legge 21 maggio 1998, n. 170). L’ art. 19 di questa intesa stabilisce che «Le Parti Contraenti concordano nell’attribuire una importanza, prioritaria ad una stretta ed incisiva collaborazione tra i due Paesi per regolare, nel rispetto della legislazione vigente, i flussi migratori. Esse riconoscono la necessita di controllare i flussi migratori anche attraverso lo sviluppo della cooperazione fra i competenti organi…».

Esso costituisce, tra l’altro, la cornice legale dell’Intesa mediante scambio di lettere del 25 marzo 1997 con cui Tirana ci chiese di collaborare per la prevenzione degli espatri illegali dalle sue coste, nel cui ambito maturò la tragica collisione tra la motovedetta “Kater I Rades” e la corvetta “Sibilla”.

Anni luce ci separano da quel periodo e dai quei fatti drammatici. L’Albania è divenuta uno Stato di diritto acquisendo un  profilo adeguato  all’ingresso nell’Unione europea.  Inoltre, si sono affermati, in decenni di emergenze migratorie, i principi giuridici che governano il soccorso (SAR), vietano i respingimenti in mare e regolano il trattamento delle persone aventi titolo a protezione internazionale.

 

Il quadro giuridico internazionale

Il problema per noi è ora come coniugare il SAR con l’accoglienza delle persone salvate in un luogo sicuro (POS). Il quale, come recitano le Convenzioni di Amburgo 1979 e SOLAS, è «un luogo ove le operazioni di soccorso sono da considerarsi terminate, dove la sicurezza dei sopravvissuti non è più minacciata e dove le loro basiche esigenze di vita (come alimentazione, alloggio e cure mediche) possano essere assicurate. Inoltre è un luogo in cui possano concludersi accordi per la loro destinazione successiva o finale».

Di fatto, dal 2013 in poi -pur con le limitazioni impostesi dal 2019, quando il numero dei migranti sbarcati aveva raggiunto la media insostenibile di più di 150.000 persone all’anno – l’Italia ha accettato di essere il POS di tutti i migranti salvati nelle zone SAR di Libia e Malta e di molti soccorsi nella nostra SAR dopo essere transitati in quella turca, greca ed egiziana. Questo, nonostante le convenzioni citate stabiliscano che competente a individuare un POS sia il Paese responsabile della SAR ove si è configurata l’esigenza di soccorrere i migranti.

In parte l’Italia, per esigenze umanitarie, ha rinunciato a far valere questi principi in sede internazionale, legiferando (D.L. 2 gennaio 2023, n. 1)) in favore delle Ong che entrino nelle acque territoriali dopo aver compiuto un soccorso di cui siano comunque informate le nostre Autorità SAR.

Direttrici migratorie verso la Zona SAR italiana (Fonte Maricogecap)

 

L’intesa tra Ue e Turchia

 Ad assolvere in modo incompleto i loro obblighi in materia di SAR e quindi di POS sono Paesi a noi vicini come Malta e Grecia: essi sostengono la tesi che se l’imbarcazione interessata non richieda soccorso perché in pericolo, debba essere lasciata proseguire verso l’Italia, considerata “destinazione finale” dei migranti. In questo modo si vuole evitare di divenire il Paese di primo approdo che è poi competente, secondo il Regolamento di Dublino, a concedere protezione internazionale agli aventi titolo. Va notato comunque che una deroga a questo principio è stata implicitamente accettata dalla Ue nel concordare nel 2016 con Ankara, dietro corresponsione di ingenti compensazioni finanziarie, il trasporto forzoso in territorio turco di migranti e profughi siriani ed afgani giunti nelle isole Greche dell’Egeo.

 

Il nuovo Protocollo Italo-Albanese

Molto si è discusso in questi giorni delle criticità, anche costituzionali, dell’intesa che consentirà all’Italia, una volta entrata in vigore, di trasportare in Albania migranti salvati da proprie navi militari. Numerosi sono i rilevi mossi all’accordo a cominciare dal fatto che non gli si riconosce la natura di “accordo in forma semplificata”, non soggetto quindi a ratifica.

In realtà, il Protocollo appena firmato, pur trovando la sua legittimazione nel citato Accordo del 1995, è ancora una costruzione da completare nei dettagli applicativi: vanno infatti definite le procedure per l’esame, in Albania, dello status dei singoli migranti, per l’adozione dei necessari provvedimenti e lo svolgimento dei conseguenti contenziosi che potrebbero essere affidati alla Sezione Immigrazione del Tribunale di Roma.

Al riguardo può ipotizzarsi che essi vengano gestiti da remoto secondo il modulo della teleconferenza. Ad ogni modo, i punti fermi ci sono già,  e sono:

1) ingresso temporaneo in territorio albanese dei migranti salvati per «effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea»;

2)  competenza italiana -all’interno dei centri di accoglienza e di quelli di rimpatrio delle persone non aventi titolo a protezione internazionale- al mantenimento dell’ordine e sicurezza degli stessi;

3) responsabilità albanese per l’ordine e la sicurezza all’esterno dei Centri;

4) esercizio in loco della giurisdizione italiana verso il proprio personale (coperto da immunità funzionale) e verso i migranti ospitati nei Centri cui sarà garantita la dovuta assistenza sanitaria.

Il modello adottato non è comunque una novità. Non si tratta di riconoscimento di “extraterritorialità” quanto piuttosto di concessione di privilegi ed immunità, nonché di parziale rinuncia alla giurisdizione da parte del Paese ospitante. Il modello di base è il “NATO SOFA” , come anche l’ Accordo del 21 aprile 1997 tra l’Albania ed i Paesi partecipanti alla missione  di stabilizzazione “Alba”.  che ad esso si ispira.

 

La cooperazione marittima

 Per completare il quadro di situazione va detto che agli ambiti di cooperazione con Tirana già avviati andrebbe aggiunto quello marittimo. Nel 2000 i due Paesi hanno già concordato i limiti delle rispettive Zone SAR con uno specifico memorandum di cooperazione.

Proprio quest’ultima intesa dovrebbe ora, alla luce del recente Protocollo, essere rivitalizzata nel Canale d’Otranto ed aree adiacenti ove confluiscono alcune direttrici migratorie provenienti da Turchia, Egitto e Cirenaica. Infine, sembra giunto il momento di dare concretezza all’istituto della Zona Contigua (estesa 12 miglia oltre le 12 miglia delle acque territoriali), il che consentirebbe ad Italia ed Albania di disporre di un ulteriore strumento di lotta ai trafficanti di migranti: a questo fine bisognerebbe fissarne i limiti nel Canale d’Otranto in cui, essendoci nel punto più stretto una distanza di 45 miglia si verificherebbe una sovrapposizione.

Foto: Governo.it

 

E' Ufficiale della Marina Militare in congedo, esperto di diritto internazionale marittimo. Membro del CeSMar, è autore di vari scritti in materia, tra cui "Glossario del Diritto del Mare" (Rivista Marittima, V ed., 2020) disponibile in http://www.marina.difesa.it/media-cultura/.

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