Luci e ombre sull’Iraq a un anno dal ritiro americano

A un anno dal ritiro degli ultimi militari statunitensi la situazione in Iraq resta difficile a causa di crescenti tensioni interne e con i vicini che si affiancano a ottimi risultati conseguiti nella produzione ed export di petrolio.
L’ictus che ha colpito il presidente Jalal Talabani, curdo, rischia di privare l’Iraq non solo di un abile mediatore ma anche della prestigiosa figura istituzionale che finora ha impedito che le tensioni tra curdi e governo centrale degenerassero in scontri armati. Il governo sciita del premier Nuori al Maliki è riuscito negli ultimi mesi a contrapporsi a sunniti e curdi ponendo le basi per quella spaccatura del Paese che la presenza statunitense era riuscita a scongiurare a caro prezzo in termini finanziari e di vite umane (oltre 4.400 i caduti americani, 4.800 quelli complessivi delle forze alleate in Iraq dal 2003). La condanna a morte in contumacia del vicepresidente sunnita Tareq al-Hashemi, giudicato colpevole dalla Corte suprema irachena per terrorismo e riparato prima nella regione autonoma curda e poi in Turchia, ha decretato l’ennesima spaccatura tra sciti e sunniti mentre con i curdi è un atto un braccio di ferro anche militare per il controllo della regione petrolifera di Kirkuk. In questa regione i peshmerga (combattenti) curdi sono schierati di fronte all’esercito di Baghdad da mesi e negli scontri vi sarebbero già state alcune decine di morti. Per impedire ai curdi di prendere il possesso dei pozzi petroliferi di Taza Khurmatu, il governo iracheno ha costituito una milizia paramilitare, chiamata “Le tigri” e punta a mobilitare anche la minoranza turcomanna.  Il grave malore che ha colpito il 79 enne Talabani, blocca i suoi tentativi di aprire un negoziato tra le parti su Kirkuk che avevano anche lo scopo di evitare il coinvolgimento dei Paesi vicini. L’Iran sostiene il governo scita di Maliki, accusato dai sunniti di essere un fantoccio di Teheran, mentre la Turchia di Recep Tayyp Erdogan (che ormai ha dispute aperte con tutti i suoi vicini) si è schierata saldamente con sunniti e curdi accusando in novembre il ”regime di Baghdad” di condurre il paese verso una possibile ”guerra civile”. Le tensioni tra i due Paesi dipendono anche dagli sconfinamenti di truppe turche nel nord Iraq per colpire i miliziani curdi del Pkk (che chiedono l’indipendenza del Kurdistan turco) effettuati in base a un accordo firmato con Saddam Hussein nel 1996 ma recentemente denunciato dal governo iracheno.
Sul fronte della sicurezza in Iraq sono di nuovo in aumento le vittime delle violenze e  in novembre sono rimaste uccise 166 persone rispetto alle 144 del mese precedente. Tra le vittime si contano 101 civili, 35 poliziotti e 30 soldati. I feriti, stando ai dati dei ministeri, sono stati 252, tra i quali 129 civili, 68 agenti di polizia e 55 militari. Il picco di violenze si è registrato negli ultimi giorni di novembre e hanno colpito soprattutto gli sciiti che hanno celebrato l’Ashura. Azioni effettuate da sunniti e soprattutto dai terroristi di al-Qaeda in Mesopotamia, “braccio” iracheno della rete terroristica che ha trasferito molte delle sue forze in Siria per combattere i regime (scita) di Bashar Assad ma continua ad agire in Iraq. Il recente rapporto  Global Terrorism Index realizzato dall’Institute for Economics and Peace, ha posto l’Iraq in cima alla graduatoria dei Paesi più colpiti dal terrorismo, con un terzo delle vittime registrate nel mondo tra il 2002 e il 2011. A un anno dal ritiro totale delle forze statunitensi, Washington tenta di mantenere un’influenza sul Paese in termini politici e militari. A inizio dicembre gli Stati Uniti e l’Iraq hanno raggiunto un ”accordo permanente di difesa” teso a ”continuare la collaborazione per rafforzare la sicurezza, migliorare le capacità difensive dell’Iraq, modernizzare le sue forze armate e facilitare il contributo di entrambi i Paesi nel campo della difesa regionale”. Un accordo che ha spazzato via la concorrenza di Mosca come fornitore di armi all’Iraq. Dopo aver messo a punto contratti con i russi per 4,2 miliardi di dollari in armi ed equipaggiamenti, il governo iracheno ha infatti cancellato le commesse attribuendo la decisione alla necessità di evitare tangenti. Fonti russe, citate dalla Bbc, hanno invece affermato che dietro la decisione irachena vi sono state pressioni statunitensi.
La crisi siriana ha poi accentuato le spaccature interne all’Iraq. Il governo è ufficialmente neutrale ma anche gli statunitensi hanno accusato Baghdad di chiudere un occhio sui rifornimenti di armi e munizioni iraniane diretti in Siria per alimentare le truppe di Assad.  Traffici effettuati negli ultimi tempi soprattutto con aerei da trasporto che Baghdad avrebbe comunque difficoltà a tenere sotto controllo poiché la sua aeronautica non dispone di una caccia intercettori. I sunniti iracheni sono invece dichiaratamente schierati con gli insorti siriani ai quali forniscono aiuti finanziari, militari e umanitari poiché i 57 mila rifugiati siriani che hanno sconfinato in Iraq sono ospitati nelle province sunnite di frontiera. Secondo indiscrezioni molti veterani sunniti  che combatterono gli americani a Fallujah e Baqubah sono oggi in prima linea nel conflitto siriano. L’intesa tra i governi sciiti di Iran, Iraq e Siria ha visto anche il recente avvio dei lavori di realizzazione del gasdotto che porterà il gas iraniano fino a Damasco con un investimento di 20 miliardi di dollari. La Siria dovrebbe acquistare tra i 20 ed i 25 milioni di metri cubi di gas al giorno dall’Iran, mentre l’Iraq ha già firmato un accordo con Teheran relativo all’acquisto di 25 milioni di metri cubi al giorno per alimentare le proprie centrali elettriche. Un’intesa che non piace alle monarchie sunnite del Golfo Persico già ai ferri corti con l’Iraq per la sua aggressiva politica di produzione ed export petrolifero poco gradita all’Opec per il rischio di abbassare il prezzo del greggio sui mercati. L’Iraq ha raggiunto una produzione di 3,4 milioni di barili di greggio al giorno e conta di arrivare a 3,7 l’anno prossimo. Una crescita rilevante per le entrate del Paese ma che potrebbe venire messa a repentaglio da numerosi fattori irrisolti: burocrazia farraginosa, corruzione dilagante, obsolescenza delle infrastrutture, difficoltà politiche e sociali interne e conseguenti crescenti rischi per la sicurezza.

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Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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