La Francia bombarda il Califfato che si espande in Siria

Parigi si unisce a Washington nei raid aerei contro il Califfato in Iraq. Ieri mattina due cacciabombardieri Rafale decollati dalla base francese negli Emirati Arabi Uniti di al-Dhafra  hanno sganciato  4 bombe a guida lsaser GBU-12 effettuando la primo incursione dell’Armèe de l’Air contro il Daesh ((acronimo arabo dello Stato Islamico che rientra nelle note di linguaggio ufficiali di Parigi) riforniti in tre criprese da un tanker C-135FR  e assistiti per la ricognizione e intelligence da un Atlantique 2 (nella seconda foto).
“Questa mattina alle 9 i nostri aerei Rafale hanno condotto una prima offensiva aerea contro un deposito logistico dei terroristi dell’organizzazione Daesh nel nord-est dell’Iraq. L’obiettivo è stato centrato e completamente distrutto”, si legge nel comunicato dell’Eliseo Il presidente francese François Hollande, in conferenza stampa, aveva annunciato il 18 settembre la decisione di Parigi di affiancare gli Stati Uniti nell’offensiva aerea irachena e i primi voli di ricognizione dei Rafale erano stati effettuati quello stesso giorno.

Il comunicato ha precisato che ci saranno “altri raid” e che il Parlamento sarà informato la settimana prossima dell'”impegno delle forze francesi a fianco delle forze irachene e dei peshmerga” curdi. “Il nostro obiettivo è quello di contribuire alla pace e alla sicurezza in Iraq indebolendo i terroristi” ha spiegato Hollande aggiungendo che “non andremo oltre, non ci saranno truppe sul terreno”.

Tra gli alleati “belligeranti” di Washington (che dall’8 agosto ha effettuato 176 incursioni aeree in Iraq)  sono in arrivo 8 cacciabombardieri australiani F/A-18 che verranno schierati negli Emirati Arabi Uniti con 400 militari dell’aeronautica e 200 incursori dello Special Air Service  mentre anche il governo olandese sta considerando di inviare caccia-bombardieri F-16 per partecipare ai raid aerei contro gli jihadisti sunniti dello Stato Islamico in Iraq ed anche in Siria, oltre a fornire armi ai peshmerga curdi.

L’Olanda sta ritirando le due batterie di missili antimissile Patriot schierate in Turchia per difendere Ankara da eventuali attacchi con missili balistici da parte del regime siriano. Il contingente olandese verrà sostituito da un reparto spagnolo di Patriot ma è curioso notare che l’Olanda non è tra i Paesi a cui Washington ha chiesto di contribuire alla guerra contr il Califfato.   Anche in Norvegia il dibattito è aperto e il governo valuta di offrire un contributo militare oltre che umanitario

Il ministro degli esteri italiano, Federica Mogherini ha escluso bombardamenti da parte dell’Italia che sta invece completando le forniture militari ai curdi . Ieri altri due aerei italiani sono arrivati  in Iraq con i carichi di armi e munizioni in un programma che prevede 18 voli.

Circa il bilancio del conflitto esploso in gennaio con l’attacco dell’ISIS alla provincia irachena di al-Anbar il rappresentante speciale Onu in Iraq, Nikolay Mladenov ha reso noto ieri che “da gennaio in Iraq ci sono state 25 mila civili colpiti, di cui almeno 8.500 morti e oltre 1,8 milioni di persone sono sfollate nel Paese da gennaio. Solo nelle ultime quattro notti altre 10 mila persone sono state costrette ad abbandonare le loro case”.

Dagli Stati Uniti giunge invece la clamorosa ammissione di James Clapper, a capo del coordinamento tra le diverse agenzie d’intelligence che in un’intervista concessa a David Ignatius del Washington Post. Secondo Clapper, l’intelligence statunitense ha fornito informazioni “preventive” sul movimento estremista in Siria e Iraq che si è autoproclamato Stato islamico, definendolo “valoroso e capace” e avvertendo le autorità delle “carenze” dei militari iracheni. Poi, il direttore della National Intelligence ha fatto anche un po’ di autocritica: “Quello che non abbiamo fatto è stato predire la volontà di combattere. Questo è sempre un problema.

Non lo abbiamo fatto in Vietnam. Abbiamo sottovalutato i vietcong e i nordvietnamiti e sopravvalutato i sudvietnamiti. In questo caso, abbiamo sottovalutato lo Stato Islamico e sopravvalutato l’esercito iracheno”. Secondo Clapper, l’IS pone “una minaccia strategica di lungo termine” agli Stati Uniti, ma ha detto di non poter prevedere se avrà, e quando, le capacità e la rete per condurre attacchi in America.

A Washington continuano le frizioni tra Casa Bianca e vertici militari circa la necessità di intervenire anche con forze terrestri in Iraq e Siria. “Ci potrebbero essere casi in cui consiglieri americani si spostano insieme alle forze sul terreno” o “aiutano a chiamare raid aerei”, ha dichiarato ieri sera il vice consigliere per la sicurezza nazionale Antony Blinken in un primo segno di apertura dell’Amministrazione alle pressioni del Pentagono. A esprimere apertamente il disaccordo sull’invio di un ristretto numero di militari a terra è stato per esempio il generale James Mattis, in pensione ma in servizio fino allo scorso anno, che in una audizione alla Commissione intelligence della Camera ha detto che la proibizione categorica a un intervento di terra legava le mani ai militari.

“I soli raid aerei possono ritorcersi contro di noi e rafforzare la credibilità del nostro nemico. Sarebbe meglio non assicurare il nostro nemico in anticipo che non dovrà vedersela con soldati americani sul terreno” ha affermato. Due giorni prima, il generale Martin Dempsey, a capo del comando riunito, ha detto pubblicamente che una decisione presa dal suo “commander in chief” poteva anche essere riconsiderata. Dempsey ha inoltre reso noto che il generale Lloyd Austin (nella foto a sinistra) , alla testa del Central Command,  aveva già raccomandato lo schieramento di alcuni militari ma che la sua proposta era stata cancellata,

“Capisco che lui è il comandante in capo, quindi ha l’ultima parola e la responsabilità e gli obblighi finali, ma gli chiederei di non togliere troppe opzioni dal tavolo” riassume il deputato repubblicano Howard McKeon. Non è chiaro inoltre se Obama abbia approvato l’estensione dei raid in Siria, operazioni varate dal segretario alla difesa Chuck Hagel insieme a Dempsey di cui lo stesso Hagel ha informato il Congresso, senza però confermare il via libera della Casa Bianca. “Ci devono essere scarponi sul terreno se si vuole avere la speranza di vincere con questa strategia, insistendo sul contrario il presidente si intrappola da solo”, ha dichiarato l’ex segretario della difesa Robert Gates.
Sul terreno invece ci sono i pasdaran iraniani. La notizia era nota da tempo ma è stata confermata ieri dal deputato ultraconservatore iraniano nonché ex comandante dei paramilitari basij Ali Zakani, ritenuto vicino alla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. “Le Brigate al-Quds (il corpo di elite dei pasdaran) sono attive in Iraq, Siria e Libano e sono in azione contro le milizie dello Stato Islamico”.

Zakani ha definito “vitale” l’intervento in Iraq del comandante delle Brigate al-Quds, il generale Qasem Soleimani, “per fermare l’avanzata dell’IS verso Baghdad”. Alcune settimane fa, a seguito della liberazione della città irachena di Amerli, a maggioranza sciita, alcuni media avevano pubblicato immagini del generale Soleimani insieme ai militari iracheni. Tuttavia, fino ad oggi, sebbene diverse fonti avessero testimoniato la presenza delle forze militari iraniane in Iraq, non c’era ancora stata una conferma ufficiale. Zakani ha quindi sottolineato che anche “lo Yemen si sta trasformando in un nuovo terreno di battaglia contro l’IS” e ha annunciato che “Sana’a presto entrerà nell’orbita iraniana” alludendo così all’arrivo delle Brigate al-Quds anche in Yemen. Le dichiarazioni di Zakani arrivano a pochi giorni dal secco rifiuto di Khamenei a proposito di una collaborazione con le forze americane e i loro alleati nelle operazioni militari contro lo Stato Islamico.

Khamenei, citato dall’agenzia di stampa Irna, ha detto che il motivo che ha spinto gli Stati Uniti a formare una coalizione internazionale contro l’IS è la volontà di mantenere una presenza militare americana nella regione
Sotto attacco in Iraq, lo Stato Islamico sta invece espandendosi in Siria a spese dei curdi che in pochi giorni hanno perso il controllo di 60 villaggi intorno alla città di Ain al Arab (Kobané in lingua curda)  nel nord est del Paese. Un’offensiva che sta facendo fuggire in Turchia almeno 5 mila civili curdi e h indotto i miliziani curdi del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) a lanciare un appello ai giovani del sud-est della Turchia, zona a maggioranza curda, invitandoli a imbracciare le armi contro i jihadisti dello Stato islamico (Is) attivi nel nord della Siria. In un comunicato pubblicato sul suo sito, il gruppo militante si rivolge ai “giovani del Kurdistan settentrionale”, come il Pkk chiama il sud-est turco, e chiede loro di “andare a Kobane e prendere parte alla resistenza storica e degna d’onore”.

Conquistando Kobane, l’Isis, che cerca di conquistare una zona che va dal nordest della Siria fino all’est dell’iraq, avrebbe modo di ottenere il controllo con continuità territoriale su gran parte della frontiera tra Siria e Turchia. A Luglio, i curdi avevano respinto una vasta offensiva dell’iS ma quella in corso in questi giorni, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, è decisamente “più massiccia”.

L’escalation delle operazioni militari contro lo Stato islamico (IS) costringerà presumibilmente tra i due e quattro milioni di persone a scappare dalla regione controllata dai jihadisti secondo un report dell’esercito turco. Per gestire questa nuova ondata di rifugiati è necessario creare due “zone cuscinetto”, sul confine con la Siria e lungo quello con l’Iraq, ha spiegato il capo di Stato maggiore turco Necdet Ozel nel corso di una riunione ad Ankara con il premier Ahmet Davutoglu, il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, il capo dei servizi segreti Hakan Fidan e diversi ministri. Lo ha reso noto il giornale filo-governativo Yeni Safak.

La Turchia, che ospita già oltre 1,2 milioni di rifugiati siriani, chiederà alla Nato di vigilare sulla sicurezza della zona cuscinetto che, secondo le autorità di Ankara, deve avere solo uno scopo “umanitario”, ospitare i profughi in fuga dal conflitto in tende e container e curare i feriti.

Rifiutando di cooperare con il regime di bashar Assad, la Coalizione guidata dagli Stati Uniti può contare in Siria solo sulle sparute forze dei cosiddetti ribelli “moderati” altri 5 mila dei quali dovrebbero venire addestrati e armati nei prossimi mesi da sauditi e americani. “Ci muoveremo il più rapidamente possibile, in collaborazione con i Paesi che ospiteranno le strutture per l’addestramento” ha sottolineato il consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, Susan Rice, “sarà un processo che richiederà mesi”. Si tratta di un programma di addestramento “serio”, ha aggiunto Rice, ribadendo che gli Stati Uniti controlleranno in modo molto accurato coloro che saranno addestrati ed equipaggiati. Anche se così fosse 5 mila reclute appena addestrate non potranno certo mettere in difficoltà lo Stato Islamico.

Foto: Armèe de l’Air, Reuters, Stato Islamico

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