Cosa intende fare l'Italia contro lo Stato Islamico?

A parole Roma si preoccupa per i recenti successi dello Stato Islamico in Libia, Iraq e Siria ma nei fatti nulla cambia. Sembra infatti già rientrato senza un nulla di fatto il dibattito generato dalle dichiarazioni de Ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni che, all’indomani della caduta di Palmira in mano alle milizie del Califfato, aveva chiesto una verifica della strategia della Coalizione. Lo aveva seguito anche il Ministro della Difesa, Roberta Pinotti, affermando che l’Italia è pronta a fare di più contro l’Isis.

In realtà nessuna concreta opzione per irrobustire i contributi alla Coalizione, dell’Italia come degli altri partner, è stata esercitata e tutto è rimasto come prima. Washington non ha mutato la sua strategia dopo le vittorie di al-Baghdadi limitandosi a inviare più in fretta nuovo materiale bellico che con molte probabilità finirà presto nelle mani dei jihadisti. Nonostante l’ampiezza dei successi del Califfato gli Stati Uniti non hanno inviato altri cacciabombardieri né deciso di mettere in campo truppe di terra e così ha fatto tutta l’Europa, Italia inclusa.

La posizione di Roma suscita quindi perplessità specie se si tiene conto che i 4 bombardieri Tornado schierarti in Kuwait hanno un impiego limitato a sorveglianza e ricognizione perché il governo italiano, unico tra i 22 che hanno inviato aerei in volo su Iraq e Siria, non ha mai autorizzato l’uso di bombe o missili. In pratica i nostri piloti e navigatori dei Tornado rischiano comunque torture ed esecuzioni sommarie se venissero abbattuti e catturati ma non lanciano un solo ordigno sui miliziani dell’Isis.

Se davvero si vuole una verifica della strategia tanto valeva cominciare a farla in casa nostra consentendo anche alla nostra Aeronautica di colpire i miliziani. Il ministro Pinotti ha fatto balenare l’ipotesi di rafforzare il numero di istruttori che addestrano i combattenti curdi ma certo questa opzione non avrebbe un impatto rilevante sull’esito delle operazioni belliche.
Un’altra opzione praticabile per dare un forte segnale agli alleati che l’Italia è pronta a fare di più potrebbe riguardare l’avvio di bombardamenti navali e aerei contro le basi dell’Isis in Libia. Meglio se coordinandoci con Egitto e governo di Tobruk che proprio ieri ha accusato il nostro governo di limitarsi alle chiacchiere.

“L’Italia inizi a dare un aiuto concreto al popolo libico altrimenti rischia di essere tagliata fuori dai futuri accordi economici” con il paese nordafricano, ha detto senza giri di parole all’agenzia Aki-Adnkronos International il ministro dell’Informazione e della cultura del governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, Omar el-Guwairi.

Dall’Italia “vogliamo un aiuto e un sostegno adeguato al livello delle relazioni e della collaborazione tra i due Paesi”, afferma el-Guwairi, spiegando che i libici chiedono “un vero aiuto” per uscire dalla crisi. “Ma finora dall’Italia abbiamo sentito solo parole. Queste dichiarazioni non danno da mangiare a chi soffre la fame, non curano i malati né aiutano i rifugiati”, ovvero i libici che dopo la rivoluzione contro Muammar Gheddafi sono scappati in Egitto e Tunisia.

“Il popolo libico – prosegue el-Guwairi – è molto arrabbiato con l’Italia perché credeva che sarebbe stata la prima a dargli una mano, mentre non è stato così”. Se non ci sarà un cambio di rotta, avverte il ministro, “l’Italia rischia di perdere i suoi contratti con la Libia, a vantaggio di altri paesi che aiutano il suo popolo”.

La minaccia diretta di colpire i nostri interessi, specie quelli energetici, viene posta non a caso il giorno successivo ad altre dichiarazioni di el-Guwairi, che martedì aveva parlato di offerte ricevute da “grandi paesi come la Russia e la Cina” per “sviluppare il settore petrolifero della Libia”. Queste offerte sono “in fase di studio, ma pensiamo seriamente di cooperare con loro”.

L’aver tergiversato così a lungo nello schierarsi con Tobruk e contro il governo islamista di Tripoli rischia di tagliare fuori l’Italia dai tavoli dove si deciderà il futuro della Libia.

Col governo di Abdullah al-Thinni sono schierati sauditi, emiratini ma anche Egitto, Russia e Francia che infatti stanno già incassando in termini politici e finanziari.

Parigi ha venduto cinque miliardi di euro di armi all’Egitto (pagano i sauditi) che combatte Stato Islamico e qaedisti, nei giorni scorsi una sua nave da guerra francese era ormeggiata a Tobruk mentre Mosca fornirà moderni equipaggiamenti all’esercito libico triangolandoli probabilmente via Egitto.

In questo contesto contraddistinto da molte parole e pochi fatti anche sull’avvio delle operazioni italiane ed europee per contrastare i trafficanti (Eunavfor-Med) è lecito avere molti dubbi.

Un po’ perché non sembra esserci molto entusiasmo intorno a un’operazione poco chiara che vede già molti Paesi smarcarsi (britannici in testa) mentre l’Algeria ha rifiutato di fornire una base per i droni europei che dovrebbero sorvegliare la costa libica e individuare le partenze dei migranti clandestini.

Alla debolezza di un piano che vorrebbe distruggere i barconi con cui si effettuano i traffici senza voler esplicitamente respingere gli immigrati clandestini si è unita la figura ridicola rimediata quando Wikileaks ha messo le mani sul piano europeo rendendolo pubblico.

Il documento era riservato ma esaminandolo emerge che i militari a Bruxelles si preparavano a condurre azioni dirette di attacco sulla costa libica raccomandando di evidenziare a livello mediatico che Eunavfor Med non è un’operazione di soccorso ma di contrasto al crimine organizzato.

Nobili intenzioni che potrebbero risultare però parole vuote se le Nazioni Unite non autorizzeranno un mandato con ampie opzioni militari alla missione Ue. In attesa che si pronunci il Consiglio di Sicurezza i segnali non incoraggiano certo chi auspica un’azione militare risolutiva contro i trafficanti di esseri umani.

Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, da Bruxelles ha ammonito come nella guerra agli scafisti “le operazioni militari hanno efficacia limitata”. Distruggere i barconi secondo Ban Ki-Moon “può finire col deprivare i già limitatissimi mezzi di sussistenza” ha detto come se si trattasse di pescherecci solo sporadicamente impiegati per trasportare clandestini.

Con scarsa lucidità Moon ha poi aggiunto che “distruggere quei barconi può avere altre implicazioni”….“anche se quelle barche possono essere usate qualche volta per contrabbandare gente, forse ci possono essere altri mezzi”. Qualcuno dica al segretario generale che usando quelle barche “qualche volta” solo l’anno scorso sono arrivate in Italia 200 mila persone, quest’anno più di 70 mila.

da La Nuova Bussola Quotidiana

Fot0: ONU, EPA, Aeronautica Miliitare, Stato Islamico, TM News

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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