Il Niger fra l’incudine e il martello

Tira aria di crisi in Niger a causa della somma di fattori destabilizzanti a livello politico, istituzionale, sociale, economico, demografico e di sicurezza. Il presidente Mahamadou Issoufou ha un consenso all’apparenza plebiscitario, avendo ottenuto nello scrutinio del marzo 2016 il 92,49% dei suffragi.

Gradito a Parigi, Issoufou è al potere dal 2011, balzato sull’onda del golpe dell’anno prima, l’ennesimo dall’indipendenza del paese, il 3 agosto 1960. Cinquantotto anni in cui si sono succedute sette repubbliche, quattro costituzioni e altrettanti putsch. La verità è che anche le ultime consultazioni presidenziali si sono svolte in un clima surreale, con il principale esponente dell’opposizione in carcere, Hama Amadou, numero uno del Movimento Democratico nigerino, oggi in esilio a Parigi.

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Anche i suoi epigoni, Oumarou Dogari, un tempo sindaco di Niamey e Issoufou Isaka, ex ministro dell’Idraulica, hanno seguito le elezioni dietro le sbarre, vittime di accuse vaghe, di pseudo-tentativi di colpi di stato e supposti traffici di neonati.

I metodi draconiani della giustizia ‘presidenziale’ sono opachi, come l’arresto di Max, alias Amadou Djibo, presidente del Fronte per la Restaurazione della Democrazia e la Difesa della Repubblica

Nonostante le derive autoritarie, il secondo mandato di Issoufou è coinciso con un allargamento del governo ad esponenti prima marginalizzati, per calmare le tensioni. Nel governo di unione nazionale siede il Movimento per la società dello sviluppo Nassara di Abdoul Kadri Tijani e il posto di primo ministro è occupato da un membro della comunità tuareg, Brigi Rafini, figura idonea anche a scongiurare le tendenze indipendentistiche dei gruppi tribali nomadi irredentisti, come nel vicino Mali,

 

La difficile coesistenza tribale

I tuareg nigerini rappresentano l’11% della popolazione. Sono insorti più volte in passato, nel feudo nordista, nel 1990, nel 1991, nel 1994 e nel 2007, rivendicando la redistribuzione dei proventi minerari. La situazione si è complicata dal 2009, con la soppressione del percorso africano della Parigi-Dakar che, complici i rezzou di al Qaeda nel Maghreb islamico, ha privato i tuareg dei dividendi del turismo avventuriero nella regione  di Agadez.

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Un’area riconvertitasi almeno fino al dicembre 2016 a sancta sanctorum dell’immigrazione clandestina e del traffico di esseri umani. Le rotte sono note, tanto che il Niger ospita tuttora 300.000 rifugiati in vfuga dai conflitti nei paesi vicini e profughi.

Secondo l’Ufficio Internazionale per le Migrazioni, l’asse Tahoua-Tassara-Tchintabaraden-Ingal è diventato la via prioritaria da Niamey verso il sud della Libia, mentre dal confine con la Nigeria gli antichi tracciati carovanieri si innestano sulla strada per Tanout e Aderbissinat, itinerari più ‘sicuri’ per i traffici verso la Libia, rispetto al famigerato asse per Gao nel centro-nord maliano.

Come l’Europa, anche il Niger si salverà solo con la stabilizzazione della Libia, nodo gordiano del flusso migratorio transahariano e chiave per lo sviluppo economico-sociale di Niamey.

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In mancanza di alternative a breve termine, i tuareg speravano invano che arrivassero i finanziamenti per la Brigata di protezione turistica della riserva naturale dell’Aïr e dell’Erg, nel deserto del Ténéré, ma hanno dovuto arrangiarsi e riconvertirsi al traffico di stupefacenti e tabacco, su cui le autorità centrali chiudono un occhio.

Sono attività che preservano gli interessi degli uni a discapito degli allevatori nomadi tebu e non fanno che alimentare lo scontro etnico fra tribù del Nord del Niger, originarie del Fezzan libico e dell’altopiano ciadiano del Tibesti, regioni che formano un continuum ininterrotto attraverso il passo di Salvador.

I tebu sono nomadi delle montagne, ingranaggio essenziale di un sistema agro-pastorale di sussistenza, imperniato sull’allevamento dei camelidi.

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Dall’estate 2016, gli epigoni del Movimento per la giustizia e la riabilitazione del Niger sono entrati in una fase di guerriglia per rivendicare un’equa distribuzione dei dividendi provenienti dallo sfruttamento petrolifero e minerario delle terre nomadi, sotto il comando di Adam Techké Koudigan, originario di Termit.

A corto di risorse, i tebu usano gestire parte dei traffici di clandestini verso la Libia e controllare il traffico di armi leggere dal Fezzan. Ecco perché sono finiti nel mirino delle forze di polizia, della gendarmeria e della guardia nazionale, che muove con i pick up dal quartier generale di Agadez.

Se tardassero ancora i progetti di riconversione lecita promessi dalle autorità alle federazioni tribali nomadi, il Niger rischia di perdere per sempre la fiducia della gioventù tebu e tuareg, disoccupata e senza speranze, facile preda delle sirene del jihadismo terroristico.

 

Il jihad che sconfina e l’illusione del G5 Sahel

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La zona di Wanzarbé-Yakatala, fra il Niger, il Mali e il Burkina Faso, è uno degli epicentri dei raid dei gruppi armati del GSIM (Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani, guidato dal terrorista maliano Iyad Ag Ghali e dell’Emirato del Sahara.

Si tratta della regione della triplice frontiera, lambita dal fiume Niger lungo l’impervio corridoio del Liptako-Gourma, teatro di numerose battaglie recenti, fortemente destabilizzato dal risorgere del terrorismo nel centro e nel sud del Mali.

Fra i 300 e i 500 jihadisti vi seminano il panico con azioni di commando, dirette soprattutto contro le forze armate, al punto che i francesi hanno riorientato tempestivamente il dispositivo dell’Operazione Barkhane.

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Oggi la missione francese nel Sahel mobilita all’incirca 19 elicotteri, 8 caccia, 5 droni Reaper, una decina di aerei da trasporto tattico e 4.000 uomini del commando paracadutista dell’aeronautica (CPA 30), del gruppo da combattimento di montagna (GCM 27), dei commando parà del GCP 11 e del 2° reggimento parà della Legione straniera. Uno sforzo considerevole per la Francia ma poca cosa in un teatro operativo vasto come l’Europa.

Ecco perché non si profila all’orizzonte nessun miracolo strategico. Da Gao, che resta il perno operativo e l’hub del plot elicotteristico, le unità si proiettano verso due direzioni principali, a ovest verso Tombouctou e a est lungo l’asse Assongo-Menaka.

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Lo stato maggiore francese ha cambiato modus operandi, spalleggiando sempre più spesso le operazioni miste con le forze armate locali, impegnate nella caccia al Daesh in tutta la regione. Lo Stato islamico nel Grande Sahara (EIGS l’acronimo in framncese) sta incassando dure perdite, almeno nelle ultime settimane.

Poco tempo fa si è arreso in Algeria il capo della katiba Salah Eddine, Sultan Ould Bady, mentre il 26 agosto la forza Barkhane ha eliminato nell’hinterland di Menaka Mohamed Ag Almouner, uno dei leader dell’EIGS.

Una pattuglia di Mirage 2000, decollata da N’Djamena e imbeccata dai commando della task force Sabre, ha incenerito lui e un membro della sua guardia personale, non lontano dalla frontiera nigerina. Almouner aveva diretto l’imboscata di Tongo Tongo, nell’ottobre 2017, costata la vita a quattro Berretti Verdi americani e ad altrettanti soldati nigerini.

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Da allora Parigi ha inviato in Niger un altro distaccamento di collegamento e di assistenza operativa.

A livello di teatro appoggia le operazioni congiunte transfrontaliere con i partner regionali del G5 Sahel.

Forse incrementerà temporaneamente il dispositivo di Barkhane, ma la sua exit-strategy punta sulla forza congiunta pentapartita, i noti 5.000 uomini del G5 Sahel, cui è stata integrata la forza multinazionale di sicurezza del Liptako-Gourma. Quest’ultima si ispira ed è stata messa in piedi a gennaio 2017 dal cosiddetto G3, il trio Mali-Niger-Burkina Faso.

A livello tattico le forze del G3 e del G5 sono preparate ad operare in piccole unità, hanno un’ottima conoscenza del territorio ma scontano un grave deficit di mezzi.

Il Niger ha poche capacità di intelligence, sorveglianza e ricognizione aerea. Nell’ottobre 2014 ha acquisito un velivolo del tipo Grand Caravan e modificato nel corso dell’anno due Diamond Aircraft DA42 MMP (Multi-Purpose Platform) equipaggiandone uno con sensori elettro-ottici e infrarossi L-3 Wescam MX-15 e un altro con sistemi di comunicazione satellitare e radio.

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I tre velivoli sono costretti a un tour de force per sorvegliare le frontiere, i traffici di contrabbando e proteggere le infrastrutture critiche, insieme agli Humbert Tetra 912 CSM consegnati dalla Francia. I DA 42 hanno anche un sistema di osservazione Carl Zeiss Optronics Goshawk 350.

Ma le sigle tattiche altisonanti non illudano. Per un teatro vasto nove volte la Francia, le forze aeree del G5 Sahel contano appena una dozzina di velivoli ISR (intelligence, Sorveglianza e Ricognizione) e dipenderanno quasi in toto da Barkhane e dagli americani in materia di intelligence. L’arrivo dei velivoli anti-guerriglia SA-29 uper Tucano raddoppierà le capacità ma questi velivoli non sono concepiti per missioni di sorveglianza.

Il supporto aereo ravvicinato è racchiuso tutto in una ventina di velivoli, fra cacciabombardieri ed elicotteri. La flotta nigerina conta solo due Su-25 ex ucraini. Quanto alle capacità di trasporto e collegamento, i cargo sono una ventina, 30 gli elicotteri e altrettanti i velivoli da ricognizione leggeri, a corto raggio e costretti ad operare su distanze enormi e con una flotta obsoleta.

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Il Dornier Do-28D-2 Skyservant dell’aviazione nigerina risale al 1978, il C-130H-LM Hercules è entrato in linea nel 1980, seguito da un Do-228-201 nel 1986 e da un An-26 Curl ex libico, ricevuto nel 1997.

Buono il parco elicotteri, visto che Niamey si è dotata di una flotta ad ala rotante a partire dal 2007, acquisendo due Mi-17 mentre nel 2013, sono arrivati tre Gazelle forniti dal governo francese, armati di cannoni da 20mm.

L’excursus sui materiali forse non rende bene il quadro della situazione. La forza del G5 Sahel è ancora in alto mare, nonostante la riunione disperata del 2 luglio scorso a Nouakchott. Il fondo fiduciario creato per gestire i contributi internazionali ha le casse vuote. Dei 414 milioni di euro promessi dai donatori alla conferenza internazionale di Bruxelles sono stati incassati solo i 50 milioni dell’UE, non ancora ridistribuiti.

La partecipazione degli Emirati Arabi Uniti per 30 milioni di euro è rimasta per ora lettera morta, mentre i 100 milioni garantiti dai sauditi sono destinati unicamente a finanziare l’acquisto di equipaggiamenti militari francesi.

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I sauditi non si fidano considerata la corruzione imperante in Niger e nel pan-Sahel. L’accordo Riad-Parigi aggira il segretariato permanente del G5 Sahel a Nouakchott e il fondo fiduciario ad hoc. I francesi e gli americani sono ovviamente della partita, soprattutto sul piano militare e meno con il portafoglio.

Il Niger è diventato l’epicentro della guerra contro il terrorismo delle forze speciali americane, anche se qualcosa potrebbe cambiare.

Presenti dal 2013, i Berretti Verdi addestrano i commando nigerini alle operazioni antiterroriste nell’area calda di Ouallam, sulla frontiera maliana, un centinaio di chilometri a nord di Niamey.

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Organizzano pattuglie congiunte ad Aguelal, sul confine algerino, a Dirkou sulla rotta per la Libia, e a Diffa, molto esposta sulla frontiera ciadiana agli attacchi di Boko Haram.

Almeno 800 militari americani operano in Niger. Altri rinforzi, che compenserebbero parzialmente l’eventuale ritiro dei commando, sono attesi non appena pronta la base da 100 milioni di dollari ad Agadez, trait d’union con Garoua, in Camerun, a 30 km dal confine.

Ci sarebbe del nuovo anche a Dirkou, cittadina a sud della base francese di Fort Madama, distante 570 km da Agadez.

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La CIA starebbe operando droni Predator dal piccolo aeroporto della città, sotto la copertura dell’USAF. Ricognizioni notturne sul sud della Libia si susseguirebbero da gennaio scorso. Voli non armati, anche se le cose potrebbero presto cambiare, «vista la minaccia crescente nel sud della Libia».

Intanto la base sarebbe stata già ampliata. La CIA si trincera dietro un «no comment», ma secondo un reporter del NYT la presenza dei droni è confermata dalle autorità locali, dal sindaco della città, Boubakar Jérôme, e dal ministro dell’Interno, Mohamed Bazoum.

Dall’inizio dell’anno, l’AFRICOM ha effettuato almeno cinque raid mirati contro responsabili jihadisti in Libia. L’ultimo risale al 28 agosto, contro un capo della branca locale dell’ISIS, a Bani Walid. Ma è ora adesso di spostarci più a ovest, perché c’è Ouallam che ci interessa da vicino. Dal 2016 ad oggi almeno 46 attacchi terroristici hanno avuto luogo nella regione, in gran parte rivendicati dal GSIM filo-qaedista, meno dallo Stato Islamico.

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La blanda repressione in corso sta esacerbando le tensioni tribali, soprattutto tra i fulani a Tahoua e Tillabéri. Rischia di favorire la strategia di penetrazione di AQMI, che mira ad accrescere le connivenze di quest’etnia, padrona dei corridoi di transumanza utilizzati dalle sue stesse reti logistiche. Il GSIM continua ad insinuarsi per gestire i traffici di sigarette, armi e cocaina, supportato dai fulani, dai tuareg e dai membri corrotti delle Forze di sicurezza interne

Dall’autunno scorso, la zona e il vicino Fezzan libico stanno diventando un santuario per i transfughi del califfato siro-iracheno. La recrudescenza dell’abigeato nell’Aïr e in Mali sembra accreditare la tesi del rifornimento di cellule jihadiste entrate in clandestinità, che potranno contare sulla benevolenza dei Tebu Teda del Fezzan e sulle compagnie di ventura ciadiane, a corto di mercedi dalla caduta di Gheddafi.

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I mercenari del Ciad integrano più gruppi. Il più famoso è il Fronte per l’alternanza e la concordia (FACT), nato nel 2016 da un costolaa dissidente dell’ex UFDD (Union des forces pour la démocratie et le développement), che forse ricorderete meglio per l’offensiva del 2008 contro N’Djamena.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, gli uomini del FACT opererebbero nelle retrovie di Sebha, nel Fezzan, spalleggiando fra l’altro la Terza forza di Misurata, attiva nel sud libico.

Quel che più ci interessa è però il Comando militare per la salvezza della Repubblica. L’organizzazione è apparsa nel luglio 2016 in rottura con il FACT. Allineerebbe diverse migliaia di combattenti ed è balzata agli onori della cronaca non tanto per gli scontri recenti con Haftar, quanto perché nell’ottobre 2017, tre suoi dirigenti, fra cui Mohammed Hassan Boulmaye, segretario generale, sono stati arrestati in Niger.

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Avevano ‘sconfinato’ illegalmente, su pick-up pesantemente armati per ordire attività illegali nella regione du Agadez.

Su richiesta del presidente Issoufou, lo Stato Maggiore francese è corso ai ripari, di fronte all’ampiezza delle minacce: ha spedito un distaccamento di 50-80 commando della Task Force Sabre a Tillabéri e ne ha un altro a Diffa nel sud, contro Boko Haram

La Francia dispone di capacità importanti in Niger, con una base aerea a Niamey da cui decollano i Mirage 2000 della 3a squadra di caccia “Ile de France”, i droni MALE MQ-9 Reaper del reggimento Belfort e i cargo dello squadrone Anjou, oltre alla base avanzata di Madama.

 

I rischi di implosione

La crisi di sicurezza del Niger è sintomo di un deficit democratico e di tenuta delle istituzioni centrali. Il paese ha una bilancia dei pagamenti stabilmente in rosso. La crescita economica del 5% degli ultimi anni è erosa da un tasso di incremento demografico abnorme. Come aveva sottolineato già nel 2014 Analisi Difesa, è questa la vera bomba ad orologeria che ipoteca il futuro del paese e lascia presagire ulteriori ondate migratorie.

In un continente africano che raddoppierà la popolazione nel 2050, il Niger ha una demografia impazzita, che registra tassi d’incremento annui del 3,9%, con più di 700.000 nuove nascite ogni 365 giorni.

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Non c’è nessuna politica di controllo delle nascite. Ogni donna in età di procreare partorisce in media 6-7 figli. Se allarghiamo l’orizzonte è impossibile ignorare la geografia e la demografia. La prima ci ricorda che l’Africa ‘incombe’ sul nostro continente. La seconda insegna che un eccesso demografico si riversa automaticamente in un vuoto.

I dirigenti europei fingono spesso di aggrapparsi al mito dello sviluppo economico dell’Africa e del Sahel, come argine alle migrazioni di massa. Ma lo sviluppo è forse un’illusione, non solo a breve termine. In Africa la demografia è da sempre superiore alla crescita economica. Dal 1960, la produzione agricola continentale è aumentata del 45%, la demografia più del doppio, superando il 110%. Più che di sviluppo, l’Africa ha bisogno di una natalità ragionevole.

Entro il 2030 conterà 1,7 miliardi persone che saliranno a oltre 3 miliardi nel 2100, quando il continente nero rappresenterà 1/3 della popolazione mondiale, 75% della quale stipata a sud del Sahara. Uno dei maggiori problemi del Niger è che i religiosi musulmani promuovono la poligamia, favoriti da un islam maggioritario al 98,3% e da un tasso di scolarizzazione infimo, inferiore al 50% per gli abitanti delle zone rurali, spesso lontani più di 20 km dalla scuola elementare più vicina, dove peraltro in media ogni insegnate ha 60/70 alunni.

La rete stradale è frammentaria e caotica e non c’è un servizio di scuolabus, nonostante i robusti investimenti cinesi nelle infrastrutture del Paese. Per le donne la situazione è addirittura più critica: una parte di loro non ha accesso a nessuna forma d’istruzione a causa dei matrimoni precoci, che nelle zone rurali avvengono all’età di 13 anni. Solo il 60% accede alle scuole primarie e appena l’8% all’insegnamento secondario.

 

L’islam nigerino in via di massimalizzazione

Negli ultimi vent’anni c’è stata inoltre una reislamizzazione dai forti connotati wahhabiti, qui come negli altri paesi saheliani, a discapito dell’islam quietista dei marabutti e delle confraternite sufi, come la Tijaniya e Qadiriyya, ancora in auge nella regione dell’Aïr.

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La prima grande moschea finanziata dai sauditi è stata inaugurata a Niamey nel 1965. Poi è stato un crescendo inarrestabile, grazie alla complicità dei governanti nigerini.

L’università islamica di Say ne è l’epitome. Il Niger ha offerto un terreno di 900 ettari. Foraggiato dal Fondo islamico di solidarietà dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, il centro universitario dispensa i suoi corsi dal 1986, come polo di riferimento per l’insegnamento dell’arabo nella regione e la formazione degli ulema dell’Africa occidentale.

Grande enfasi circonda la Facoltà di studi sulla sharia e sull’islam in genere, che conta non meno di 1.200 studenti provenienti da 20 paesi. Il corpo docente è inviato da ONG islamiche eterodirette che sfuggono ormai al vaglio dell’Associazione islamica del Niger.

Crescono i fautori del sunnismo radicale izalista, di matrice nigeriana, ancora contenuto a una strategia d’influenza e di destabilizzazione delle moschee, nell’Aïr ascetico di un tempo tramite la diaspora libica del quartiere misuratino di Agadez, ma anche a Sud, nelle città di Dosso, Tahoua, Diffa, Zinder e soprattutto Maradi, vera capitale economica del paese, a ridosso della Nigeria.

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Il movimento izalista ha una radio privata, Bonferey, che punta a conquistare i cuori dei giovani dei centri urbani. L’imam del quartiere popolare Tchiangarai di Niamey, Boubakar Seydou Traoré, segretario generale dell’associazione islamica del Niger, ha fatto un bilancio che la dice lunga sul fenomeno: «con i nuovi media, la televisione, internet e la radio abbiamo accesso a più informazioni.

Una cosa che ha già favorito una migliore pratica religiosa. Ci sono più donne velate e si osserva l’interruzione dei corsi all’università durante le preghiere. In poche parole è l’emergere dell’islam».

Commercianti e studenti di Maradi sono stati il cavallo di Troia di Sheik Abubakar Goumi, che ha saputo proiettare tempo fa dalla Nigeria il credo izalista, favorendo la nascita dell’associazione Adini-islam finanziata dai paesi del Golfo. Una partita di giro che ha promosso la nascita di un corpo di professori-missionari, muniti di borse d’insegnamento e di fondi per la costruzione di scuole e moschee ‘ortodosse’.

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I risultati dell’erosione democratica e laica si sono visti di recente, con il montare dell’anti-occidentalismo e delle critiche violente contro la Francia, accusata di neocolonialismo dai giovani nigerini neoproletari, scarsamente istruiti, spesso nemmeno francofoni, privi di una vera coscienza politica e facilmente manipolabili.

C’è un neo-confessionalismo radicaleggiante, sfociato nelle recriminazioni ricorrenti contro la Niger Terminal, una filiale del gruppo Bolloré in Africa. I precetti dell’islam violento che soppiantano i costumi tradizionali e l’etica animista hanno già prodotto derive interconfessionali. Ce lo ricorda il dramma del 16 e 17 gennaio 2015, quando il presidente Issoufou osò onorare le vittime dell’eccidio di Charlie Hebdo, durante un viaggio di stato a Parigi. La minuta comunità cristiana nigerina se la vide brutta e i luoghi di culto furono attaccati e saccheggiati.

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A Niamey si salvarono dagli incendi solo due parrocchie, difese dai fedeli. A Zinder, i discepoli di Santa Teresa del Bambin Gesù rischiarono di morire arsi vivi durante gli attacchi sunniti. Disordini gravissimi con un bilancio di 12 morti e 150 feriti fra la comunità cristiana. E che anche i cattolici siano nel mirino lo conferma il rapimento di padre Pierluigi Maccalli, avvenuto fra il 17 e il 18 settembre 2018 nella missione di Bomoanga, al confine con il Burkina, nella regione nigerina di Tillabéri.

Un sequestro opera di jihadisti, forse del GSIM, a caccia di riscatti facili, anche se a chiarire meglio i fatti penserà l’inchiesta aperta dalla procura di Roma.

 

Conclusioni

È un susseguirsi di eventi tragici, segno di una grave cesura nella coesione sociale del paese, aggravata da uno scenario economico fragilissimo. Con la crescita galoppante della popolazione, il reddito procapite è in discesa. I 18 milioni di nigerini vivono oggi con una ricchezza di 510 dollari annui a testa. Erano 469 dollari procapite nel 2014. Secondo l’ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale, il Niger affonda all’11° posto delle nazioni più povere del pianeta, fra l’Afghanistan e la Sierra Leone, mentre il Mali occupa la 24a posizione. Una classifica che elegge Niamey a capitale più povera del Sahel.

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Il 60% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e il 7% soffre di gravi carenze alimentari, come documenta l’Ufficio per gli affari umanitari dell’OCHA di Niamey.

Il presidente Issoufou è un’eccezione.  Dispone di un patrimonio stimato a più di 1,1 miliardi di franchi CFA (1,7 milioni di euro), ma amministra un paese dall’indice di sviluppo umano bassissimo, alle ultime posizioni delle classifiche del PNUD, il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. La distanza fra la classe dirigente e il popolo è siderale. A poco sta servendo il programma presidenziale ‘Atto di rinascita II’.

Il Niger è in testa alla lista degli stati prioritari del Programma Alimentare Mondiale, a rischio di prosecuzione per mancanza di risorse. L’autosufficienza alimentare è un miraggio, in un paese prevalentemente desertico, in cui il settore agricolo, asfittico e infragilito dalla volatilità climatica, produce il 33,3% del reddito nazionale.

Gli aiuti internazionali rappresentano ancora una fetta troppo grande degli introiti pubblici, pari al 36% dei redditi, in un paese che avrebbe un sottosuolo ricchissimo di risorse, dal fosfato al sale, passando per il rame, l’oro, l’argento, il carbone e gli idrocarburi.

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Senza dimenticare l’uranio, di cui il Niger è quarto produttore mondiale e secondo fornitore di Areva, fra poche luci e molte ombre.

Lo scandalo dell’Uraniumgate ha affossato la credibilità dell’Esecutivo nigerino, implicando il ministro delle Finanze, in un momento in cui il Tesoro Pubblico è esangue. La società Africard, creditrice dello stato nigerino, è passata ai pignoramenti, salvando solo in extremis il Boeing 737 presidenziale, per poi trovare un modus vivendi con Niamey.

Il numero uno delle Finanze, Hassoumi Massaoudou, è sospettato di malversazioni nell’affare delle 5.000 tonnellate di uranio vendute clandestinamente nel 2012. Una pagina cupa in cui sembrano coinvolti i francesi di Areva, la Società del patrimonio minerario del Niger (SOPAMIN) e il gruppo libanese Optima, con sede a Dubai.

Poiché le quotazioni dell’uranio sono in calo dal 2016 sembrano esser naufragati tutti i propositi di investimento di Areva, che ambiva ad aprire anche la miniera di Imouraren, vicino ad Arlit.

Un dato negativo per il Niger, visto che le royalties sullo sfruttamento delle miniere e i diritti doganali legati all’esportazione del prodotto sono tra le voci principali delle entrate finanziarie pubbliche.

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Rimane l’ossigeno degli aiuti internazionali. L’UE ha accordato 820 milioni di euro nel quadro dell’11° Fondo per lo sviluppo (2014-2020), un programma che si trascina dal 1959 con scarsissimi risultati.

Difficilmente cambieranno il quadro gli aiuti della Banca mondiale, scesa in campo con 600 miliardi di Franchi CFA per il triennio 2017-2020. Anche il Fondo monetario internazionale ha sbloccato 20 milioni di dollari, parte di una linea di credito da 150 milioni.

Parliamo di finanziamenti a perdere che non sopperiscono alla mancanza di investimenti diretti esteri, infimi nell’economia nigerina, forieri di appena il 5% del PIL Vedremo se avranno successo la “cabina di regia” proposta di recente dal presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani e la partecipazione del presidente Issoufou al vertice Cina-Africa dei giorni scorsi ma finora il Niger, come molti altri Stati africani, si è rivelata incapace di garantire agli investitori sicurezza finanziaria, politica, esistenziale e territoriale.

Foto:  AFP, AP, Ministero Difesa Francese, US DoD, Google e Reuters

 

Francesco PalmasVedi tutti gli articoli

Nato a Cagliari, dove ha seguito gli studi classici e universitari, si è trasferito a Roma per frequentare come civile il 6° Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze. Analista militare indipendente, scrive attualmente per Panorama Difesa, Informazioni della Difesa e il quotidiano Avvenire. Ha collaborato con Rivista Militare, Rivista Marittima, Rivista Aeronautica, Rivista della Guardia di Finanza, Storia Militare, Storia&Battaglie, Tecnologia&Difesa, Raid, Affari Esteri e Rivista di Studi Politici Internazionali. Ha pubblicato un saggio sugli avvenimenti della politica estera francese fra il settembre del 1944 e il maggio del 1945 e curato un volume sul Poligono di Nettuno, edito dal Segretariato della Difesa.

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