SPECIALE CINA – La Guardia Costiera e la Milizia Marittima di Pechino

Con questo articolo di Marco Leofrigio, Analisi Difesa continua la serie di articoli incentrati sulla potenza militare cinese che ha prese il via nei giorni scorsi con l’articolo di copertina di Francesco Palmas.

 

Wulong naohai: I 5 Dragoni che governano il mare

Chi sono i 5 Dragoni? sono i signori delle acque della Cina, una frase che sintetizza “il chi fa che cosa” nelle acque e sulle coste cinesi, una realtà geografica enorme: 32mila chilometri di coste e oltre 3 milioni di km quadrati di acque su cui Pechino esercita la giurisdizione (in diversi casi contestata da altre nazioni).

In realtà i Dragoni sono 7 perché dobbiamo aggiungervi i due Dragoni sui cui sono state investite imponenti risorse, specialmente negli ultimi 5-6 anni: la marina militare e la guardia costiera. Per capire meglio la situazione attuale, occorre partire da un periodo antecedente ad oggi. La dirigenza cinese ha seguito due binari per riorganizzare e sviluppare i 7 Dragoni: un binario civile e l’altro militare/para-militare.

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Negli anni 2013-2016 vi è stata una profonda sburocratizzazione e radicale riassetto delle autorità civili competenti sui ‘mari cinesi’.

La brillante immagine dei 5 Dragoni che governano il mare racchiudeva serie problematiche generatesi tra le cinque autorità preposte alle questioni marittime: sovrapposizione di competenze, ostacoli causati da rivalità palesi e/o sottotraccia tra le diverse strutture amministrative, troppa burocrazia. Fatto è che poi solo quattro strutture sono state sottoposte alla “re-ingegnerizzazione” amministrativa, tecnica, logistica, gestionale: la struttura competente sulla pesca, la sorveglianza marittima, la polizia doganale, la polizia marittima ramo della forza paramilitare delle Forze di Sicurezza di Frontiera che dipendono dal Ministero della Sicurezza; ai margini di queste modifiche è rimasta l’Amministrazione della Sicurezza Marittima.

In questo contesto riorganizzativo la Guardia Costiera è stata oggetto di speciali cure: è diventata la più grande numericamente al mondo e con le unità navali più all’avanguardia. In particolare dal 2018 il controllo sulla Guardia Costiera è stato trasferito in capo alla potentissima Commissione e Militare Centrale, cioè il vertice apicale di tutte le forze armate cinesi.

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Queste riforme sono orientate a rendere tutte entità più efficienti, al fine di affiancarle alla guardia costiera e poi alla marina militare nel contesto complessivo dell’esercizio del potere marittimo (in lingua cinese: haiyang qiangguo).

Il build-up della Guardia Costiera ha avuto in questo ambito un passaggio davvero cruciale, non essendo più alle dipendenze dell’amministrazione civile ma di quella militare. Oltre i tradizionali compiti di qualsiasi guardia costiera, si sono aggiunti quelli di contribuire, in prima linea, alla realizzazione di uno tra i più ambiziosi obiettivi: la Cina che entra nel novero delle potenze marittime. Diventare una potenza navale per esercitare il potere marittimo.

Di questo tema cruciale ne ha parlò espressamente Hu Jintao durante il 18° congresso del Partito Comunista Cinese il penultimo segretario del PCC. Una politica ribadita e nettamente rafforzata dalle scelte guidate da Xi Jinping. Ad oggi la Marina Militare cinese (PLAN People’s Liberation Army Navy) ha raggiunto un numero di unità navali cospicuo, tale da porsi ai primi posti tra le marine da guerra.

I piani di crescita sono ovviamente molto ambiziosi puntando a disporre, dal prossimo anno, di un centinaio di navi da combattimento di tutte le tipologie ed entro il 2030 disporre di almeno sei portaerei con cui formare i gruppi da battaglia, le task-force combinate ad imitazione di quelle della US Navy. Una svolta epocale essendo la Cina una nazione storicamente ‘terrestre’ e senza nessuna tradizione marinaresca come nel caso, per esempio, del Regno Unito, Spagna, Olanda, Portogallo e gli Stati Uniti.

 

La Guardia Costiera: una sorta di flotta parallela

La guardia costiera cinese dal 2011 ha beneficiato di un fortissimo incremento nei numeri complessivi, sia in quantità di uomini che di mezzi navali. Vi è stata l’entrata in linea di unità di altura, cutter di grandi dimensioni. Una vera e propria “flotta parallela”, che affianca strettamente la marina militare. La guardia costiera cinese annovera circa 1.275 imbarcazioni di tutti i tipi, e soprattutto avrà in linea entro il 2020 almeno 260 navi da pattugliamento grandi, dalle 500 tonnellate in su, secondo i dati più aggiornati indicati dal US Naval War College China Maritime Studies Institute.

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Un numero senza confronti, considerando la US Coast Guard ha a disposizione solo una cinquantina di navi comparabili a quelle cinesi. Solo il Giappone tiene in parte il confronto con la Cina, allineando una tra le più numerose flotte costiere con ben 457 navi, mentre a distanza siderale vi è la Malesia con 131 imbarcazioni, Singapore con 102 imbarcazioni, poi Vietnam, Indonesia, etc.

Due sono i super-cutter della CCG (China Coast Guard), la classe Zhaotou, 12mila tonnellate, lunga 164 metri, con velocità massima 35 nodi, armata con un pezzo da 76mm, due pezzi minori ausiliari, 2 armi anti-aeree ed un ampio hangar che può ospitare fino a 2 elicotteri o UAV.

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Tutte caratteristiche che le pongono in cima alla lista delle unità di guardia costiera più grandi in circolazione. Al confronto la più grande unità della guardia costiera statunitense arriva solo a 4.600 tonnellate, mentre i più grossi cutter giapponesi arrivano a circa 9.300 tonnellate.

Per ribadire sia la nota assertività della politica di Pechino, sia per mostrare il notevole livello costruttivo della cantieristica cinese il CCG 3901 nel maggio 2017 fu inviato a pattugliare nel Mar Cinese Meridionale. Il gemello CCG 2901 dal 2015 opera nell’altra zona di mare disputata del Mar Cinese Orientale, con oggetto un antico contenzioso sulle isole Senkaku (per i cinesi isole Diaoyu).

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Pattugliamenti vengono fatti regolarmente con finti pescherecci, inviati in missione di raccolta informazioni/sorveglianza nel Mar Cinese Meridionale, la zona marittima perennemente agli onori della cronaca a causa dei due arcipelaghi Paracelso e Spratly, oggetto di contesa contese tra Cina, Taiwan, Vietnam, Indonesia, Malesia, Brunei e Filippine.

Acque su cui Pechino esercita una rigida politica assertiva, considerandoli parte integrante del suo territorio, cosa che vale anche per le risorse energetiche sottomarine. In particolare la Cina nelle Paracelso e Spratly ha allestito molte infrastrutture militari di vario tipo, come mai in precedenza, tutte documentate da immagini via satellite. Ha attrezzato una serie di avamposti, nei punti più strategici, per impieghi potenziali futuri, in una zona dove, ricordiamo, transita ben il 30% del traffico mondiale di merci via container ed è prossima agli Stretti di Malacca gli choke points della massima importanza strategica per Pechino.

 

Le flottiglie di pescherecci come milizia marittima: una forza dual-use?

Ai quasi 1.300 battelli della Guardia Costiera si aggiunge lo strumento della cosiddetta milizia marittima, che completa quella che abbiamo definito “la flotta parallela” cinese.

E poiché geopolitica è anche geoeconomia, queste due dimensioni sono una dentro l’altra. Le nuove esigenze causate dalla maggiore disponibilità di denaro, dalla impetuosa fortissima crescita economica ha prodotto tra l’altro ed è quello che ci interessa qui evidenziare, una richiesta di pesce per le tavole dei cinesi salita a ben 11 volte rispetto a quella degli anni Settanta.

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I pescherecci cinesi hanno allargato il raggio operativo di pesca, motivato pure dal maggiore inquinamento delle coste della madrepatria, a causa del fortissimo sviluppo economico. La crescita numerica dei pescherecci cinesi è dunque dovuta da un lato per soddisfare la enorme domanda di prodotti della pesca, dall’altro lato per attuare i dettami della politica.

Una “forza navale civile” dual-use utilizzata anche per condurre azioni di ostacolo, di protesta pilotata per gli scopi del momento, muovendo a massa le imbarcazioni da pesca, a “sciame” (come va di moda dire) le flottiglie da pesca sono una validissima pedina nello scacchiere marittimo.

L’esempio di questo sciame di pescherecci più recente si è verificato nel dicembre 2018 laddove un centinaio di imbarcazioni si sono ancorate nelle vicinanze dell’isola di Thitu, appartenente alle Filippine, nell’arcipelago delle Spratly.

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Fatto avvenuto pochi giorni dopo che Manila aveva annunciato dei lavori di riassetto della pista di volo e un futuro ampliamento attracco per le navi, una serie di lavori dalla valenza sia civile che militare. Questa azione è proseguita fino al mese di marzo di questo anno, su una scala ancora più fino a raggiungere quasi trecento imbarcazioni, tutte ammassate nell’area, secondo quando rilevato dalle forze armate filippine.

Altro fatto che viene ripetutamente segnalato concerne i pescherecci da 500 tonnellate, costruiti per la navigazione negli oceani, obbligati dalla legislazione internazionale a dotarsi di transponder, dotazione che le flottiglie cinesi dispongono su meno del 5% dei loro pescherecci.

Un elemento che viene visto come una volontà di mascherarne sia la presenza sia il numero. In sostanza i pescherecci sono impiegati come strumento a basso costo politico, considerando che vennero già impiegati durante gli scontri sino-vietnamiti del 1974. Niente di nuovo se non il classico esempio della creazione di unità paramilitari ad hoc, comodamente spendibili e sacrificabili quando occorre. E gli altri paesi della regione cosa fanno? Le flottiglie di pescherecci vengono impiegati da Vietnam e Filippine come anche dal Giappone, a supporto dei propri interessi economici e politici ma tuttavia non possono competere con i numeri e l’organizzazione massiva cinese.

Di questa milizia Pechino non ha mai nascosto la sua esistenza, la quale viene classificata anche nei report statunitensi con l’acronimo PAFMM (People Armed Forces Maritime Militia). Tuttavia secondo alcuni osservatori, ne sarebbe invece sopravvalutata la sua capacità ‘militare’, essendo fondamentalmente una grande flottiglia dedita alla pesca ovunque possibile, fino ad arrivare anche al Golfo del Messico.

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La guardia costiera e la milizia marittima agiscono, quando richiesto, come prolungamento delle forze armate cinesi, con una politica estera cinese in costante movimento.

Fatto dimostrato dalla notizia recentissima, emersa a inizio agosto, riportata dal Wall Street Journal e dal Financial Times, che ha rivelato l’esistenza di un accordo segreto con la Cambogia per allestire un porto e una pista aerea, così da fornire un’importante base nel Golfo di Thailandia alle forze armate cinesi. Gli altri stati della regione fanno come la Cambogia? cioè subiscono il peso geopolitico di Pechino? Ne accettano la presenza sempre più forte, rassegnati all’evidenza degli eventi, al fait accompli?

 

Il contrasto alla penetrazione marittima cinese

Le nazioni minori cercano di contrastare come possono, con i (pochi) mezzi a disposizione e di certo guardano agli Stati Uniti e all’Australia per avere dei partner in grado di bilanciare Pechino.

Oppure come fa Hanoi oltre ad aver intessuto ottimi rapporti con Washington, si sta muovendo per ottenere l’appoggio di Mosca. Va rilevato che la strategia marittima di Pechino è vista come minaccia anche dall’Australia, una nazione geograficamente distante dalla Cina e che non ha dispute di nessun tipo con Pechino. I grandi progetti e relative infrastrutture della One Belt Road sfrutteranno soprattutto le rotte via mare, da qui ne consegue che Pechino agisce per rafforzare al massimo la sicurezza dei suoi approvvigionamenti, fondamentali per proseguire con lo sviluppo economico in corso: le Vie della Seta ne sono lo strumento principe.

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Oltre alle basi e approdi allestiti nel Sud-Est asiatico, e la costruzione di porti e facilitazioni logistiche nell’Oceano Indiano si sta muovendo, molto cautamente, anche nelle acque del Pacifico con progetti di sviluppo proposti a Vanuatu e alle Figi. Mosse che hanno suscitato immediatamente commenti negativi da parte del governo australiano.

Per quanto concerne gli Stati Uniti, come noto, la rivalità con Cina è in atto da anni ed in tempi più recenti, cioè con la seconda fase dell’Amministrazione Trump possiamo affermare che non trascorra mese in cui non vengano evidenziati i rafforzamenti di Pechino nel settore navale.

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La marina cinese è descritta nel report del Dipartimento della Difesa inviato al Congresso in tali termini: ”la Marina militare cinese a cui vanno aggiunte la guardia costiera e la milizia marittima rappresentano la forza navale più grande nell’Indo-Pacifico”, e si sottolinea anche che Pechino impiega queste sue pedine con moltissima frequenza: “adottando una modalità di low-intensity coercion in maritime dispute”.

Il focus della superpotenza planetaria, prima con Obama e riconfermato dalle politiche di Trump, dunque attesta che la vastissima regione dell’Indo-Pacifico è il primo pensiero a Washington. Un contesto complessivo con uno spiacevole potenziale di rischio, nel quale si sono aggiunti i dazi americani sulle merci cinesi, che hanno innescato una fase di economic warfare senza precedenti, tra le due nazioni.

Questi allarmi e timori degli statunitensi sono imitati dall’importantissimo player regionale che è rappresentato dall’Australia, il cui governo ha deciso il 30 luglio scorso di dare il via libera alla costruzione di infrastrutture militari alle forze americane, progetto che prenderà il via dopo che il Congresso darà l’approvazione alla US Navy del budget relativo, stimato in 211 milioni di dollari. Ricordiamo che nel 2011 un contingente di 2.500 Marines fu inviato a Darwin, nella parte nord-orientale del paese australiano, fu una mossa di Obama che irritò e non poco i vertici cinesi.

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Oggi tuttavia con questa nuova autorizzazione alla costruzione di infrastrutture per i militari statunitensi, il governo di Canberra passa ad un livello più significativo, assume una posizione assertiva, rafforzata dalla decisione di allestire una forza navale dedicata all’area del Pacifico, battezzata ad oggi Pacific Support Force che avrà base a Brisbane, integrata nella Prima Divisione delle forze australiane.

Con quale scopo? Training congiunto, interoperabilità, collaborazione alle operazioni umanitarie, lotta ai traffici illegali con le nazioni insulari situate nel Pacifico sud-orientale quali Papua Nuova Guinea, le Salomone, Vanuatu e Figi. Isole e arcipelaghi che rappresentano storicamente l’antemurale difensivo naturale e fondamentale per l’Australia; nel 1941-45 svolsero un ruolo di prima linea difensiva contro i giapponesi e videro la Nuova Guinea e le Salomone teatro di durissime campagne belliche.

Foto: Xinhua. Guardia Costiera Cinese, US DoD e Reuters

 

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Nato a Roma nel 1963, laurea in Scienze Politiche, si occupa da oltre dieci anni di geopolitica, strategia, guerre e conflitti, forze armate straniere, storia navale, storia contemporanea, criminalità organizzata, geo-economia. Ha scritto decine di articoli, analisi e saggi su questi argomenti. E' membro attivo della Società Italiana di Storia Militare. Dal 2011 è co-autore, con Lorenzo Striuli, di diversi articoli di storia navale sulla Rivista Marittima della Marina Militare. Collabora fin dal 2003 con Analisi Difesa.

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