SE AMMAZZARE GLI ITALIANI NON COSTA NULLA

Quanto costa la vita di un italiano? A noi costa dolore, sconforto, cordoglio, tante lacrime e troppe chiacchiere, spesso discorsi retorici quanto inconcludenti e di circostanza.

A coloro che uccidono cittadini italiani nel nome di Allah invece non costa nulla. L’Italia non attua rappresaglie né ritorsioni contro i movimenti terroristici legati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico. Non lo abbiamo mai fatto e probabilmente mai lo faremo non tanto per una precisa scelta politica quanto per l’incapacità di chi ci governa e ci ha governato in precedenza di gestire una simile iniziativa in termini operativi e di impatto sull’opinione pubblica. Il tema è delicato e scomodo ma non è certo nuovo e noi di Analisi Difesa lo abbiamo trattato anche in passato.

La strage di Dacca ha portato le vittime italiane del terrorismo islamico a 19 in meno in un anno e mezzo tra Bruxelles, Parigi, Tunisi. Ouagadougou, Sabrata (Libia) e Bangladesh. Tutte uccisioni rivendicate dall’Isis se si esclude il piccolo Michel Santomenna ucciso in Burkina Faso durante il raid dei miliziani di al-Qaeda nel Maghreb Islamico.

Forse la nazionalità italiana delle nove vittime della strage nel ristorante di Dacca non è stata determinante, i terroristi cercavano “infedeli, meglio se con la pelle bianca”, precisazione razzista enunciata da uno dei killer del cooperante italiano Cesare Tavella ucciso nel novembre scorso. Questo elemento non va però letto come un’attenuante ma dovrebbe preoccuparci ancora di più perché il motivo per cui i terroristi non temono di uccidere italiani è forse legato anche all’assenza di deterrenza.

Chi colpisce cittadini israeliani ha da sempre la certezza che jet, droni e agenti segreti di Gerusalemme gli daranno la caccia anche per decenni; chi uccide americani può stare certo che lo cercheranno ovunque impiegando anche armi di grande potenza che provocheranno molti “danni collaterali” tra amici, parenti e connazionali dei terroristi.

Quando l’Isis bruciò vivo (con tanto di video) un giovane pilota di F-16 catturato dopo l’abbattimento o il guasto tecnico del suo aereo, la rappresaglia fu tale che tra bombe ad alto esplosivo e napalm pare siano state uccise 2 mila persone nei territori siriani in mano all’Isis, tra miliziani e civili.

Quando, sempre l’anno scorso, 12 cittadini egiziani (cristiani copti) vennero sgozzati dall’Isis (un altro video) sulla spiaggia di Derna, Il Cairo scatenò F-16, elicotteri da attacco e forze speciali sulla città più jihadista di Libia, senza certo chiedere il permesso all’Onu.

Almeno 400 terroristi vennero uccisi o catturati e trasferiti in Egitto per essere “interrogati”.

 

 

Ammazzare italiani invece non costa nulla. Nessuna rappresaglia: non raderemo al suolo Raqqa anche perché i nostri cacciabombardieri volano solo sull’Iraq e disarmati.

Persino i jet belgi e danesi (Paesi militarmente irrilevanti ma che hanno aderito con coerenza alla Coalizione) bombardano l’Isis ma i nostri no, anzi, neppure un miliziano del Califfato è stato finora ucciso da armi o militari italiani.

Per questo Roma ha davanti due opzioni. La prima è ritirarsi ufficialmente da una Coalizione che, a partire dagli Stati Uniti, fa solo finta di fare la guerra all’Isis, annunciando la nostra uscita ed esortando il Califfato a risparmiare cittadini e interessi italiani.

Non faremmo la figura da Cuor di Leone ma avrebbe un senso, tenuto conto che il Califfato attacca gli occidentali per il nostro intervento e la nostra presenza in Medio Oriente oltre che per il sostegno che forniamo agli odiati sciti (iraniani e governi di Damasco e Baghdad).

La seconda è unirci a quei Paesi che fanno pagare un caro prezzo a chi uccide i loro cittadini: questo significa individuare bersagli paganti e annientarli provocando il massimo dei danni e delle vittime possibili.

A differenza di al-Qaeda il Califfato è un vero Stato, con un’amministrazione che controlla città e infrastrutture: obiettivi idonei per rappresaglie anche devastanti, utili a far comprendere che chi uccide italiani subirà gravi conseguenze e ristabilendo così un minimo di deterrenza.

Il governo italiano non sembra però voler assumere nessuna di queste due iniziative.

Matteo Renzi ha definito la strage di Dacca il più grave attentato ai danni di nostri connazionali dopo quella di Nassiriya anche se il paragone non regge.

Numero di morti a parte, in Iraq venne colpita la missione militare italiana, obiettivo legittimo per chi considerava le forze alleate vere e proprie truppe d’occupazione. A Dacca invece hanno ucciso civili innocenti.

Dopo il solito appello all’unità nazionale, Renzi ha dichiarato che la strategia contro i terroristi non cambia: è quella di “distruggerli senza pietà” pensando però anche “all’aspetto importante dell’educazione” per “evitare che la prossima generazione sia come questa”.

Cosa significhi non è chiaro. Distruggeremo senza pietà i terroristi bombardandoli di libri? Educando i loro figli alla tolleranza e al rispetto della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo?

Battute a parte, le autorità di Dacca hanno confermato che i terroristi erano tutti di buona e benestante famiglia (come i sauditi che provocarono la strage dell’11 settembre 2001 negli USA e come gran parte dei terroristi italiani degli “anni di piombo”) a conferma che la teoria così diffusa che il terrorismo è figlio della povertà fa acqua da tutte le parti.

Il rischio è che il dibattito in atto alimenti le solite polemiche politiche invece di perseguire l’obiettivo di maturare decisioni strategiche concrete.

Non è infatti chiaro dove Renzi voglia andare a parare, considerato che ha aggiunto che “serve il pugno di ferro con chi pensa di portare da noi una strategia basata su odio e terrore”.

Come si tradurranno in concreto le frasi bellicose di Renzi?
Richiamare distruzioni sena pietà e pugno di ferro contro i terroristi senza poi dar seguito alle parole con devastanti iniziative militari significa ridicolizzare ulteriormente l’Italia, farla apparire ancor più debole e azzerare ogni possibile concetto di deterrenza esponendo ancor di più i cittadini italiani nel mondo al rischio di attacchi e attentati.

Senza una risposta chiara ed evidente ci si limiterà solo a confermare ai jihadisti che uccidere gli italiani non costa nulla.

@GianandreaGaian

Foto Ansa, AP, Sky TG24 e Reuters

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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