Trump sembra credere nella pace coi talebani

da Nuova Bussola Quotidiana

Le prospettive che in Afghanistan prenda piede un negoziato di pace tra il governo di Kabul e i Talebani che coinvolga direttamente anche gli Usa (come chiesto espressamente dai ribelli islamisti) sembra risultare convincente per l’Amministrazione Trump.

Lo dimostra la visita inaspettata a Kabul del segretario alla Difesa, Jim Mattis, che ha aperto al dialogo almeno con una parte degli insorti. “Può darsi che non riusciremo a mettere assieme tutti i Talebani in un solo colpo, questo forse sarebbe chiedere troppo. Ma ci sono elementi chiaramente interessati a parlare al governo afgano” ha detto il capo del Pentagono al suo arrivo a Kabul.

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In gennaio i Talebani avevano proposto negoziati diretti con gli Stati Uniti e a fine febbraio il presidente Ashraf Ghani ha proposto colloqui di pace condizionando il negoziato a un cessate il fuoco e al riconoscimento della Costituzione del 2004 pur rendendosi disponibile a modificarla e offrendo l’amnistia ai combattenti e il riconoscimento del movimento Talebano come partito politico.

Con un messaggio su Twitter i talebani hanno respinto l’offerta ritenendola una richiesta di “resa” da parte di un governo definito “illegittimo” e “burattino degli USA” ma rinnovando invece l’invito di Washington a “parlare” direttamente con i loro rappresentanti in Qatar, ignorando le autorità afgane.

Per questo qualche perplessità è d’obbligo nell’ascoltare Mattis che afferma come attraverso il processo di pace “ci stiamo dirigendo verso una vittoria in Afghanistan, che sarà una riconciliazione politica non una vittoria militare”.

Il capo del Pentagono lo scorso giugno aveva già ammesso che gli Stati Uniti “non hanno vinto” contro i talebani in Afghanistan e nel novembre scorso il comandante delle forze Usa e Nato a Kabul, generale John Nicholson, aveva precisato che la situazione resta di “impasse”.

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L’esercito afghano sostenuto dai militari occidental,i per lo più dediti a consulenza e addestramento, non riesce a sconfiggere i Talebani e i loro rivali nel campo jihadista del “Khorasan” (lo Stato Islamico afghano) attivi in alcune province orientali.

Al tempo stesso però gli insorti controllano almeno metà del territorio afghano ma non hanno le forze necessarie a sconfiggere i governativi e ad espugnare le città, specie ora che Donald Trump ha autorizzato l’invio di altri quasi 4mila rinforzi (700 saranno forniti dagli alleati europei) portando a quasi 15 mila il numero dei militari americani e circa 5mila quello dei sodati alleati. Trump ha inoltre rimosso molti dei limiti imposti finora ai raid aerei statunitensi per ridurre i rischi di provocare vittime civili, confermando la volontà di Washington e della Nato di non abbandonare Kabul.

A favorire la ricerca di un negoziato di pace, almeno tra una parte dei Talebani, peserebbero non solo valutazioni di tipo militare ma anche economiche. Il transito del gasdotto TAPI che attraverso l’Afghanistan porterà in Pakistan e India il gas del Turkmenistan crea opportunità di sviluppo in tutta la regione occidentale e meridionale del Paese asiatico (la sua realizzazione ha già ottenuto il “placet” dei Talebani) mentre lo sfruttamento delle immense risorse minerarie afghane, possibile solo se cesserà la guerra, garantirà ricchezze ben superiori a quelle incamerate dagli insorti con la coltivazione dell’oppio.

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Anche per Trump l’opportunità di una soluzione negoziata della crisi afghana rappresenta un’importante conferma dell’efficacia della sia politica “muscolare” applicata in tutti gli scenari internazionali di crisi.

Una politica basata sul confronto militare e la deterrenza già rivelatasi efficace (a quanto pare) con la Corea del Nord, come dimostrerebbe l’invito di Kim Jong-un a confronto diretto con il presidente statunitense.

Sarebbe davvero paradossale che un presidente Usa eletto in base a un programma “isolazionista” conseguisse risultati nella politica internazionale di gran lunga più rilevanti dei suoi predecessori.

In attesa che si concretizzino sviluppi diplomatici la guerra afghana continua e secondo il Terrorism Research Group di Washington i soli Talebani hanno rivendicato 472 attacchi nel mese di gennaio.

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Solo negli ultimi giorni le incursioni sono state massicce e sanguinose. Ieri un’autobomba è esplosa vicino ad una base delle forze di sicurezza afghane nel distretto di Nad Ali della provincia meridionale di Helmand causando la morte di almeno sei soldati.  Poco più a nord, nella provincia di Farah dove operano anche militari italiani, si combatte da giorni. I

eri i talebani hanno attaccato prima dell’alba una postazione delle forze di sicurezza afghane nel villaggio di Dehak uccidendo 8 uomini dell’intelligence (Direzione nazionale della sicurezza – Nds) e tre agenti di polizia che si aggiungono alle decine di militari e agenti uccisi nei giorni scorsi nel distretto di Anar Dara.

Azioni che si svolgono nel cuore della ziona più ricca di coltivazioni di oppio dell’Afghanistan e che hanno forse lo scopo di acquisire posizioni di forza in vista di un possibile avvio delle trattative.

@GianandreaGaian

Foto: Reuters, AP e US DoD

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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