Meglio affidare ai militari i compiti di protezione civile

Il dibattito sul ripristino del servizio di leva obbligatorio, rilanciato in ambito politico da Matteo Salvini nel 2018, ha registrato in questi due anni reazioni contrastanti basate forse più sul gradimento o meno del leader leghista che sul tema concreto.

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Per valutare in modo completo la proposta occorre infatti chiedersi quale modello di difesa nazionale stiamo perseguendo o dovremmo perseguire, valutando le esigenze nazionali in tema di sicurezza interna anche in relazione all’attuare minaccia del Coronavirus, e quale ruolo i militari saranno chiamati a ricoprire.

La proposta di Salvini faceva riferimento ad alcuni mesi di servizio militare o civile e al di là del valore educativo e formativo, condiviso anche dall’Associazione nazionale alpini (ANA), va sottolineata la possibilità che una nuova leva militare obbligatoria possa venir strutturata soprattutto a sviluppare capacità di intervento in contesti di emergenza civile.

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In molti hanno definito “anacronistica” l’idea di ritornare al servizio militare obbligatorio, in considerazione del fatto che le Forze Armate italiane di oggi sono composte da professionisti ampiamente impiegabili anche in aree di crisi oltremare: compito che non potrebbe venire assegnato a militari di leva con addestramento limitato a pochi mesi.

Altro fattore che sembrerebbe sconsigliare il ritorno alla leva obbligatoria è rappresentato dalla constatazione che oggi le forze armate non dispongono più di caserme, mezzi, istruttori e servizi, inclusi quelli sanitari, dimensionati per la leva mentre da anni fanno i conti con risorse finanziarie risicate che verrebbero ulteriormente decurtate se il bilancio Difesa dovesse finanziare anche la “nuova naja”, i cui costi sarebbero elevati per offrire ai giovani una formazione di qualità.

Se pensiamo a uno strumento militare da impiegare in combattimento in aree di crisi e contesti internazionali al fianco di truppe alleate è evidente che la leva è del tutto inadeguata né è pensabile poter trasformare un giovane in un soldato qualificato, addestrato e “hi-tech” in pochi mesi. Sarebbe forse meglio a tal scopo istituire una Riserva operativa (tema di cui ha scritto recentemente su Analisi Difesa il generale Antonio Li Gobbi) in cui potrebbero confluire ex militari che, pur avendo trovato un diverso impiego, sono disponibili a venire richiamati un paio di settimane all’anno per addestramento e aggiornamento e fino a 2 o 3 mesi annui per far fronte emergenze.

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In Italia del resto non mancano le caserme dismesse, certo da ammodernare o ristrutturare, rimaste sotto il controllo dell’amministrazione Difesa, che potrebbero venire impiegate per alloggiare riservisti o personale di leva. Quest’ultimo poi non avrebbe la consistenza numerica del passato a causa del calo delle nascite e delle inevitabili esenzioni dal servizio.

Per essere “anacronistico” il servizio militare obbligatorio gode di molta popolarità in Italia (moltissimi ex militari sarebbero pronti a farne parte) ed è ancora in vigore in Europa, in forme diverse, in Austria, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Lituania, Norvegia e Svizzera: non a caso Stati che puntano più alla difesa territoriale che a inviare truppe oltremare.

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La leva è stata ripristinata, anche se con numeri per ora limitati, in Svezia che l’aveva abrogata nel 2010, ufficialmente per le tensioni con Mosca ma nel paese scandinavo oltre 60 aree urbane sono fuori dal controllo dello Stato (lo ammette la stessa Polizia svedese), in mano a gang islamiche che vi applicano la sharia.

Le “no go area” sono ormai diffuse nei paesi nordeuropei dove si è già provvedito in alcuni casi a schierare l’esercito (come in Belgio dopo gli attentati jihadisti- nella foto a lato) e in Francia (nelle foto sotto) costituiscono già un problema endemico destinato a dilagare su scala continentale a causa della crescente pressioni migratoria islamica e non a caso Gendarmerie e Armèe de Terre si addestrano da tempo (senza troppo clamore) a fronteggiare insieme rivolte urbane e persino a sventare attentati con ordigni esplosivi imnprovvisati (IED).

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In Italia tale minaccia è per molto scarsa, limitata forse ad alcune aree urbane metropolitane, ma nel Meridione vi sono quartieri in cui la popolazione è ostile alle istituzioni e il territorio è sotto il controllo delle organizzazioni criminali.

Le minacce interne rischiano di alterare le prospettive di sicurezza in Europa, richiedendo un numero elevato di soldati e poliziotti per il controllo del territorio non concepibile senza la leva o una nutrita forza di riservisti, almeno per ricoprire compiti di supporto ai reparti di “prima linea”.

Allo stesso tempo emergenze già oggi ben evidenti come la pandemia da Coronavirus impongono la disponibilità di molto personale per gestire soccorsi, allestire strutture temporanee ma anche per controllare il territorio e, potenzialmente, gestire disordini sociali su vasta scala.

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Anche in Italia, a fronte di un calo costante degli organici militari (da 190 mila nel 2010 a 154 mila nel 2024 con un innalzamento dell’età media dei militari oggi superiore ai 40 anni e che senza arruolamenti massicci di giovani sfiorerà i 50 tra quattro anni) e della costante riduzione delle truppe schierate all’estero è invece in aumento l‘impegno militare sul territorio nazionale per ordine pubblico, lotta agli incendi e soccorsi in seguito a calamità.

 Solo l’Operazione “Strade sicure”, il pattugliamento di strade e piazze in oltre 50 centri urbani, vede schierati oltre 7mila soldati, impegnandone annualmente altri 15mila tra rotazioni semestrali e preparazione dei reparti.

A ogni calamità naturale, dai terremoti all’ attuale pandemia, le richieste di intervento dei militari si  moltiplicano da parte di amministrazioni regionali e Comuni, in parte per l’affidabilità e l’efficienza riconosciuta alle Forze Armate (da anni le istituzioni che godono di maggiore gradimento presso l’opinione pubblica) e in parte per l’eccessiva burocrazia  e lentezza della Protezione Civile che, come appare evidente anche in questi giorni di pandemia, non sembra in grado di gestire con efficienza la situazione sul campo né di approvvigionare il materiale sanitario necessario.

Del resto se ai militari viene chiesto sempre più spesso di fare il poliziotto, il vigile del fuoco, la guardia giurata o addirittura lo spalaneve e il netturbino da un lato è lecito avere dubbi circa l’efficienza di tante strutture civili ma dall’altro è evidente che non si possono espletare tali servizi pubblici puntando sull’impiego di militari professionisti  hi-tech e “combat ready” per non snaturarne vocazione e compiti.

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Al tempo stesso “potremmo meravigliarci che ancora non ci sia una visione complessiva della situazione che assegni ai militari un ruolo specifico nello sforzo collettivo che le istituzioni del Paese sono chiamate a compiere” in contesti di emergenza interna come ha scritto sempre su Analisi Difesa l’ammiraglio Fabio Caffio .

Sia ben chiaro, non si tratta di sdoganare concetti quali il “dual use”, in auge fino a qualche mese or sono ma opportunamente archiviato: lo strumento militare deve essere ben equipaggiato per difendere combattendo la Patria e i suoi interessi.

Tuttavia è di tutta evidenza che a causa della non sufficienza o inefficienza di altre strutture e istituzioni, sui militari ricade non da oggi il peso di interventi ormai in ogni campo della sicurezza civile sia essa sanitaria, post-catastrofe naturale o di controllo del territorio nazionale e di contrasto a reati e criminalità.

Interventi in cui i militari svolgono un ruolo non certo secondario né legato a sporadiche emergenze se si considera l’operato delle truppe già nel terremoto in Friuli del 1976 e le vaste operazioni di controllo del territorio nelle regioni meridionali e insulari (Vespri Siciliani, Forza Paris, Riace e Partenope) fin dall’inizio degli anni ’90.

Non a caso lo stesso generale Claudio Graziano, da capo di stato maggiore della Difesa ipotizzò un progetto di formazione a servizi come la protezione civile riferendosi a “una nuova forma di riserva che potrebbe anche servire al ringiovanimento delle forze armate e allo sviluppo del Paese”.

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Un programma evidenziato sulle pagine di Analisi Difesa dal generale Giorgio Battisti che, pur riconoscendo che il servizio militare obbligatorio oggi non può “trovare più realizzazione in quanto non sarebbe in grado di soddisfare le aspettative di Forze Armate moderne capaci di confrontarsi alla pari con gli altri Eserciti occidentali”,  propone la “creazione di un Servizio di Difesa Nazionale (SDN) obbligatorio della durata di alcuni mesi, a inquadramento militare e rivolto ad attività di pubblica utilità (assistenza, tutela ambientale, educazione e promozione del patrimonio artistico e culturale, ecc.) e di protezione civile.

L’istituzione di una Riserva che mobiliti personale che ha già prestato servizio e di un Servizio di Difesa Nazionale con “giovani reclute” non sono antitetici ma bensì complementari e integrabili tra loro.

Senza alcuna pretesa di fornire “ricette” esaustive ma con il solo obiettivo di contribuire a un necessario dibattito su questo tema, un’ipotesi su cui lavorare potrebbe vedere l’istituzione di una Forza Territoriale che inquadri la Riserva e l’SDN.

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Iniziativa finanziabile assorbendo le risorse oggi assegnate alla Protezione Civile (sulle cui performance burocratiche, comunicative e operative nell’attuale emergenza non è il caso di dilungarsi) che potrebbe sopravvivere a livello regionale come ufficio di coordinamento delle organizzazioni di volontariato mobilitabili sul territorio in caso di emergenza.

Le operazioni di intervento potrebbero venire gestite dal Comando operativo di vertice Interforze (COI), rafforzandone la struttura, che già coordina le operazioni operative oltremare e l’impiego del personale militare sul territorio nazionale in occasione di calamità naturali e in casi di straordinaria necessità ed urgenza: operazioni per le quali il COI è già responsabile della direzione, coordinamento e controllo delle attività.

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Il COI coordinerebbe l’azione dei Comandi Territoriali Esercito (CTE), strutture oggi sottoimpiegate e che potrebbero curare la formazione del personale di leva dell’SDN e della Riserva disponendo di una struttura di comando con uno stato maggiore (interforze per avere già integrati tutti gli assetti possibili) con cellula di pianificazione, attuazione di esercitazioni di intervento civile in coordinamento con le autorità e le istituzioni civili locali così come con le Regioni Aree e i Dipartimenti Marittimi di Aeronautica e Marina i cui contributi in termini di mezzi e reparti specialistici in diversi contesti è fondamentale per il trasferimento di mezzi e personale e la fornitura di servizi alle popolazioni colpite.

Ai CTE farebbero capo anche i reparti composti da professionisti qualora venissero mobilitati per la gestione di un’emergenza (NBCR, genio, sanitari, logistici, ecc) e che potrebbero effettuare addestramenti congiunti con il personale dell’SDN e della Riserva simulando diverse tipologie d’intervento.

Con questo e gli altri interventi citati Analisi Difesa ha inteso stimolare il dibattito su un tema che riveste un ruolo di grande rilevanza per la sicurezza della Nazione.

@GianandreaGaian

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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