Il caso Silvia Romano tra luci e ombre per la credibilità nazionale

La cooperante italiana Silvia Romano, rapita in Somalia il 20 novembre 2018, dopo un anno e mezzo è tornata libera in Italia.  Il 9 maggio il Presidente Conte nell’annunciarne la liberazione ha ringraziato “le donne e gli uomini dei servizi di sicurezza esterna” (ovvero l’AISE- Agenzia Intelligence e Sicurezza Esterna). Ottima notizia per Silvia Romano e i suoi familiari che superano così un periodo lungo (troppo lungo!) di ansia e sofferenze difficilmente immaginabili.

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Complimenti al personale dell’AISE, che operando sia in Italia sia nel Corno d’Africa ha reso questa liberazione possibile. I nostri servizi di sicurezza ancora una volta hanno saputo agire in silenzio, con professionalità e competenza.

Si dibatte molto in merito alla conversione all’Islam della Romano. Non penso possa interessarci se si sia trattato di un effetto della “sindrome di Stoccolma” o di una conversione meditata. Sono questioni che rientrano esclusivamente nella delicata sfera privata della persona. Siamo, per fortuna, in una civiltà che riconosce giustamente la libertà religiosa dell’individuo.

Ciò ci differenzia sia da chi (sulla base di fanatismo religioso) ci attacca nelle nostre stesse città sia da quei paesi (come l’Afghanistan o il Pakistan) dove rinnegare l’Islam per un credo diverso è punibile per legge anche con la pena capitale. Sarà una nostra vulnerabilità “tattica”, ma è indubbiamente una nostra forza morale.

Alcuni si scandalizzano per il pagamento di un riscatto ma lo Stato italiano lo ha sempre fatto per connazionali rapiti all’estero.  Il messaggio che anche questa volta abbiamo lanciato ai gruppi terroristici è che l’Italia paga e non ci pensa neppure a organizzare un raid per liberare gli ostaggi o stanare i terroristi una volta ottenuta la liberazione. Il rapimento degli italiani sulla “borsa finanziaria del jihad internazionale” si conferma un investimento a ritorno economico sicuro e privo di rischi per chi lo mette in atto.

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Non è così rapire un israeliano, un russo, uno statunitense o un britannico, le cui nazioni magari qualche volta lanciano anche raid di forze speciali per liberare i loro ostaggi o, più frequentemente, azioni punitive a liberazione avvenuta.

Peraltro, avendo sempre l’Italia seguito questa politica arrendevole (ma priva di rischi sia per gli ostaggi sia per la compagine governativa) e tenendo conto della nostra opinione pubblica solo un governo con un solido supporto popolare avrebbe potuto assumersi la responsabilità di un’azione di forza. Cosa assolutamente impensabile in questo momento di crisi sanitaria, economica e istituzionale. Quindi, ben venga pagare sempre e comunque e, come diceva Rossella O’Hara, “domani è un altro giorno” e qualcun altro ne affronterà le conseguenze.

 

Se è purtroppo inevitabile pagare il riscatto, però, sarebbe opportuno farlo in maniera discreta.  Quindi: pagare, recuperare l’ostaggio, portarlo a casa nel massimo silenzio, senza cercare photo opportunity che fanno soltanto ulteriore pubblicità ai sequestratori. Aspetto questo già ampiamente trattato su questa testata dal direttore Gaiani.

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Fin da piccoli ci insegnano che “prevenire è meglio che curare”, che in questo caso signifuca adottare misure di prevenzione che tendano a limitare i rischi per i cittadini italiani operanti in zone dove possono essere  presi in ostaggio, in quanto percepiti come potenziali “galline dalle uova d’oro” da parte di organizzazioni criminali e/o terroristiche del luogo. Sicuramente più facile a dirsi che a farsi.

Come si vede in tutti i teatri operativi dove sono presenti contingenti nazionali, non pochi civili operanti per organizzazioni non governative rifuggono, per cultura o per preconcetto, l’adozione di misure di sicurezza che considerano limitare la loro capacità d’azione e rendere più difficile portare a termine l’opera che si propongono di realizzare.

Non hanno torto, ma ciò oltre a rendere loro individualmente vulnerabili, in caso di loro uccisione o sequestro, si trasforma inevitabilmente in una “vulnerabilità politica” della Nazione.

Occorre, pertanto, agire di concerto con le Organizzazioni che li inviano in quei territori affinché vengano adottate, anche nell’esercizio di attività di volontariato, misure almeno di situational awareness che consentano di rendere tali operatori meno vulnerabili. Si tratta, peraltro, di un problema troppo spesso di natura eminentemente culturale ed ideologica, più che organizzativa, di difficile soluzione.

Da un punto di vista prettamente “teorico” è difficile non concordare con chi ritiene sia assurdo far rischiare la vita a funzionari dello Stato e impiegare soldi dei contribuenti per salvare chi va in zone a rischio, ignorando di adottare adeguate misure di sicurezza e talvolta (non è però il caso della Romano) rifiutando di coordinarsi per la propria sicurezza con le autorità nazionali.

Peraltro un tale approccio non sarebbe praticabile in Italia soprattutto per ragioni culturali e neanche un “premier di ferro” l’adotterebbe. La considerazione che più rilevante è forse di natura geo-politica.

Silvia Romano, benché sequestrata in Kenya, era tenuta in ostaggio in Somalia nelle mani di al-Shabaab, sanguinario movimento di ispirazione qaedista.

I-jihadisti-di-al-Shabaab-uccidono-16-persone-in-un-attentato-anche-il-vice-ministro-1280x720La Somalia è stata per decenni una nostra colonia, dopo la guerra siamo stati la ”potenza mandataria” che l’ha condotta alla piena indipendenza, per decenni le classi dirigenti somale si sono formate nelle nostre università  e accademie militari, nella prima metà degli anni ’90 abbiamo fornito alle Nazioni Unite il contributo militare più importante dopo quello USA nel tentativo (fallito) di risolvere i problemi di quel Paese al quale siamo tuttora legati (anche culturalmente ed economicamente).

Ancora oggi la “European Union Training Mission Somalia” (che ha il compito di addestrare le forze di sicurezza somale soprattutto per far fronte alla minaccia di Al Shaabab) è a leadership italiana e il nostro Paese è il maggior contributore di forze in tale ambito.

Con tutte queste premesse, se i nostri servizi hanno dovuto avvalersi della mediazione dell’intelligence turca per ottenere la liberazione di un ostaggio italiano in Somalia, significa che il ruolo politico dell’Italia e la sua credibilità anche nel Corno d’Africa (come in Libia) sono ormai solo uno sbiadito ricordo. Un ennesimo smacco per la nostra politica estera.

Ovviamente l’aiuto di Turchia e (sembra certo) del Qatar non è stato forse fornito gratis, in termini non di denaro ma di contropartite politiche nei diversi dossier in cui gli interessi italiani e turchi sono divergenti.

Ben venga quindi la libertà riacquisita da una cittadina italiana che era prigioniera dei terroristi e complimenti all’operato dell’AISE ma dobbiamo preoccuparci per il segnale di debolezza che si continua a dare al terrorismo internazionale e, soprattutto, per la continua perdita di rilevanza internazionale dell’Italia anche in teatri in cui fino a non molti anni fa rappresentavamo la potenza europea di riferimento.

 

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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