L’Arma e i fatti di Piacenza: urge un “vaccino” per la nostra società

Mezzo secolo fa, compilando la domanda d’ammissione in Accademia, misi in prima istanza le Varie Armi, in seconda i Carabinieri e in terza il Commissariato. Se non mi fosse andata bene con la prima scelta (per entrare nei paracadutisti, la mia sola ambizione di allora!) e mi fosse andata buca coi Carabinieri (un battaglione dell’Arma all’epoca era pur sempre nella Folgore, pensavo), contavo infatti di riuscire almeno in quella specie di Polizia che credevo fosse il Commissariato.

Avrei imparato corso durante che quest’ultimo era invece il Corpo destinato ad assicurare le risorse necessarie alla vita dei militari (vettovagliamento, uniformi, carburanti, munizioni, medicinali e così via); funzione fondamentale certamente, ma al di fuori delle mie scarse capacità di amministratore.

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Per fortuna (e per graduatoria negli esami d’ammissione – Dio benedica il liceo scientifico “Tassoni”!) venni accontentato. Molti altri dei compagni di corso con i quali trascorsi i quattro anni successivi avevano fatto le stesse scelte, magari con una maggiore consapevolezza di come fosse fatto l’Esercito, mentre molti di essi erano in Fanteria o Artiglieria quasi per “ripiego”, avendo optato per i Carabinieri in prima istanza e non essendo stati accontentati sulla base dell’esame di ammissione.

I Carabinieri, prima Arma dell’Esercito, esercitavano infatti anche allora un grande fascino per il fatto di essere soldati e poliziotti al tempo stesso, e anche per un giovane Cadetto dei “piedi neri” – come ci chiamavano nelle nostre cicliche frizioni goliardiche – e poi Ufficiale di fanteria come il sottoscritto, il fatto che appartenessero alla mia stessa Forza Armata era motivo di orgoglio. Rappresentavano una realtà di punta tra quanto l’Esercito poteva esprimere; e l’Esercito era il meglio che l’Italia esprimesse. Ne eravamo certi allora e continuiamo a esserne certi anche oggi.

Da allora sono cambiate molte cose e come per il resto della società i cambiamenti in meglio si contano sulle dita di una mano. Ma il rispetto e l’amore per i Carabinieri è rimasto lo stesso.

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Per questo, la notizia dei fatti scoperti nella caserma dei Carabinieri di Piacenza, se colpisce l’opinione pubblica esposta senza armi all’offensiva dei media, con particolare riferimento a quelli che mai hanno amato le nostre Forze Armate, non lascia indifferenti neppure coloro che, come il sottoscritto, hanno indossato per decenni le stesse stellette degli indagati, anche se in un Esercito che ora è distinto dall’Arma. Con loro condivido l’umiliazione dei molti Carabinieri che hanno seguito il mio stesso percorso di vita e di quanti di loro ho avuto l’onore di avere tra i miei collaboratori; con loro sento il peso di una vicenda che colpisce quello che resta del corpo sano del nostro Paese.

Certamente, le colpe sono individuali, come si dice in questi casi, e le mele marce verranno isolate dall’Arma e punite dalla Magistratura, anche se quest’ultima ci ha abituato a sua volta a “cadute di stile” – come minimo – preoccupanti.  Ma è indubbio che la ferita è profonda e merita qualche riflessione di ampio respiro.

Come è potuto, infatti, accadere un fatto così grave proprio in uno degli ambiti più “controllati” tra quelli dell’apparato statale? Possibile che la depressione che attanaglia il nostro paese e di cui siamo testimoni tutti i giorni abbia attecchito anche tra chi tale depressione deve combattere? In tanti cercano ora di togliersi i sassolini dalle scarpe, sfogano le loro frustrazioni rancorose, credendosi liberi finalmente di dire tutto il male possibile dell’Arma, come se l’Italia potesse dimenticare quanto deve all’Arma stessa ed alle Forze Armate in generale.

Ma la tentazione di non accantonare il problema con la solita (per quanto giusta) storia delle “mele merce” è troppo forte. Irresistibile la voglia di fare di tutta l’erba un fascio pescando a piene mani in quel qualunquismo che così “bene” ha fatto al nostro paese. Ed ecco, quindi gli “esperti” d’accatto che pontificano, che stigmatizzano, che anticipano le conclusioni del processo che si terrà, esercitando senza freni un’indignazione che ritengono di loro esclusiva competenza.

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A questo punto, un po’ di rabbiosa nostalgia si apre la strada in chi invece non si compiace affatto di questa situazione, nel tentativo di trovare, se non la spiegazione, le concause di un evento inatteso e traumatico.

E, guardando indietro come dovere di ogni bravo nostalgico, c’è prima di tutto da chiedersi se un fatto del genere sarebbe potuto avvenire quando le selezioni del personale avvenivano dopo aver scavato all’inverosimile nelle storie personali e familiari degli interessati, quando bastava un sospetto per trasferire il responsabile in qualche sperduto reparto o stazione della provincia profonda, lontano dalle lusinghe e dalle tentazioni delle più ricche e gradevoli sedi cittadine.

Ci sarebbe da chiedersi se sarebbe stato possibile un comportamento così lontano dall’etica del carabiniere e del soldato quando promozioni, trasferimenti e punizioni erano al riparo da quelle incursioni dei Tar che in nome dei diritti dei ricorrenti hanno incrinato oltre ogni misura la potestà di scelta e disciplinare delle linee di comando.

Certamente, non aiuterà in tal senso l’introduzione delle prossime associazioni sindacali, destinate per forza di cose a incidere ancora più radicalmente sulle possibilità dei Comandanti di imporre la forza del regolamento a chi preferisce vivacchiare ai suoi margini.

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In oltre due secoli di vita, i Carabinieri si erano ampiamente meritati il ruolo di protagonisti assoluti di mille e mille barzellette proprio perché incarnavano una rigidità che non lasciava scampo e che ha sempre fatto tanto ridere il benpensantume trincerato dietro la propria autoreferenziale superiorità culturale e comportamentale.

Non poteva capire, quest’ultimo, che sul capitale di rigida obbedienza, disponibilità al sacrificio spinta fino alla rassegnazione, subordinazione a un’idea quasi religiosa dello Stato si basava uno dei principali strumenti che aveva consentito al nostro paese di attraversare drammi epocali senza essere da questi schiacciato, distrutto.

Ecco, appunto, lo Stato. Senza voler togliere un’oncia di responsabilità agli indagati, ma confidando che sapranno giustificare almeno in parte quelle che sembrano le loro malefatte, è giusto chiedersi che idea dello stesso è quella che li ha spinti ad arruolarsi e poi ad adottare i comportamenti che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

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E’ giusto chiedersi se sentivano il peso del loro ruolo di difensori dello Stato o se quest’ultimo in nome di un malinteso rispetto dei diritti e delle pari opportunità non riesce più ad attrarre i migliori, per aprirsi invece “a tutti”.

Le Forze Armate, e i Carabinieri, avevano gli anticorpi che gli consentivano di mantenere la “barra al centro”, nonostante mille cambi di rotta a livello politico nazionale, nell’interesse del nostro Paese. Erano gli anticorpi della disciplina, dell’autorità dei Comandanti, di un’etica antica e radicata nella nostra Storia per la quale alla retorica dei “diritti” più assurdi e spesso aberranti sbraitata da tutti gli sfasciavetrine si contrapponeva la prassi del silenzioso dovere dei “servitori dello Stato”.

Era la stessa prassi che portava i migliori a impegnarsi per il bene comune anche nelle altre Istituzioni, nella giustizia e nella politica, quando era escluso che chi non avesse una solida cultura potesse governare il paese più ricco di cultura del mondo.

Quando il rispetto per gli “ultimi” non li avrebbe mai autorizzati a sostituirsi ai “primi” per curare gli interessi comuni e a ergersi a rappresentanti obbligatori di tutti. Insomma, nel momento in cui è l’Arma sotto attacco – certamente per colpa di alcuni suoi componenti – ci dobbiamo interrogare su quali debbano essere le medicine per la nostra società, escludendo a priori l’illusione consolatoria che il problema sia incapsulato in una sola componente, per quanto fondamentale, dello Stato.

Di un vaccino che ci protegga dall’infezione che corrode da molti anni il corpo una volta sano della nostra società, ne abbiamo bisogno tutti. Ma proprio tutti.

 

Foto nell’articolo: militari dell’Arma dei Carabinieri nelle operazioni all’estero: Iraq, Niger, Kosovo, Libia e Afghanistan (Difesa.it e G. Gaiani)

 

Marco BertoliniVedi tutti gli articoli

Generale di corpo d'armata, attualmente Presidente dell'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia, è stato alla testa del Comando Operativo di Vertice Interforze e in precedenza del Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali, della Brigata Paracadutisti Folgore e del 9° reggimento incursori Col Moschin. Ha ricoperto numerosi incarichi in molti teatri operativi tra i quali Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan.

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