Guerra a Gaza: un ulteriore passo verso la destabilizzazione globale

 

Toh, un’altra guerra! Per molti deve essere stata questa la reazione all’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas nei confronti di Israele. L’irruzione in forze di molti miliziani palestinesi fuori dalla gabbia stretta attorno alla Striscia di Gaza dall’Israeli Defence Force (IDF) ha sconcertato l’opinione pubblica, abituata a ritenere quest’ultima capace di prevedere tutto, e comunque di rintuzzare senza problemi le minacce palestinesi.

Invece, una pioggia di razzi la cui preparazione pare essere sfuggita anche ai servizi di intelligence di Tel Aviv, notoriamente tra i più efficaci del mondo, ha accompagnato un attacco multimodale ai kibbutz e ai reparti militari israeliani a ridosso della Striscia senza precedenti, con un alto tasso di vittime israeliane e con la cattura di un gran numero di prigionieri tra i militari dell’IDF e di ostaggi tra i civili.

Tra questi ultimi, molti erano impegnati in un imprudente rave party a poca distanza dalla recinzione della Striscia. Insomma, una serie di leggerezze sorprendente che ha lasciato spazio a un’azione ben coordinata e pianificata nel dettaglio che ha infranto il mito dell’invincibilità israeliana con un danno di immagine per Tel Aviv che ne incrina la deterrenza, data dalla propria credibilità militare e soprattutto dal supporto senza se e senza ma statunitense.

Una risposta rabbiosa a questo smacco era prevedibile, quindi, e certamente era stata messa in conto da parte di Hamas che non poteva ignorare, anche sulla base di ripetuti e sanguinosi precedenti, che gli interventi israeliani contro la Striscia e contro la popolazione stessa sarebbero stati pesantissimi.

Infatti si ripetono senza sosta intensi bombardamenti contro Gaza e i numerosi campi profughi dell’area, causando molte vittime tra la popolazione civile. Oltre a obiettivi mirati, sono stati colpiti abitati, centrali energetiche e opere idrauliche, ospedali e addirittura luoghi di culto, causando molte vittime civili, mentre l’assedio alla striscia si è fatto ancor più stringente, centellinando l’ingresso di aiuti umanitari dall’Egitto.

La guerra in Ucraina, a questo proposito, ci aveva abituato alle tristi immagini dei combattimenti senza tregua che si svolgono nelle trincee del Donbas, facendoci vedere come giovani e meno giovani ucraini e russi si uccidono l’un l’altro, senza pietà. Ma con questa guerra, la crudezza delle cronache ha raggiunto altre vette, con l’immagine dei corpi senza vita dei bambini periti sotto le bombe o col pianto inconsolabile degli orfani.

Nel momento in cui scrivo queste note, alla campagna di bombardamenti aerei sembra essersi aggiunta una ancor limitata entrata di truppe terrestri nella parte settentrionale della Striscia e al centro della stessa, per tagliarla in due. Non si sa con precisione se si tratta già della grande offensiva più volte annunciata, e sembrerebbe che sia intervenuta una certa prudenza, dopo gli annunci bellicosi dei primissimi giorni.

Forse saranno stati gli inviti alla moderazione che gli sarebbero stati inviati anche da parte statunitense, per la preoccupazione di un allargamento del conflitto che potrebbe addirittura interessare la NATO, vista la solidarietà espressa dalla Turchia ad Hamas, o forse è la consapevolezza che un combattimento negli abitati, anche son obiettivi degradati da una intensa campagna aerea, provocherebbe un alto tasso di perdite anche da parte israeliana.

Quello che è quasi certo è che l’ingresso dei militari israeliani nella Striscia di Gaza non sarà probabilmente risolutivo per la liberazione degli ostaggi, a meno di accettare la perdita di molti di essi, né per l’eliminazione di Hamas.

Gli ostaggi, infatti, rivestono naturalmente un’importanza centrale nel conflitto e non possono essere liberati con un’operazione militare sul tipo della famosa impresa israeliana di Entebbe (Uganda) del 3-4 luglio 1976 o dell’altrettanto famosa azione del GSG9 tedesco a Mogadiscio l’anno successivo, visto che presumibilmente sono detenuti in differenti località.

Le persone sequestrate sono certamente disseminate su tutto il territorio, dentro palazzi, case, nei tunnel e per quanto sia possibile per gli israeliani ottenere informazioni sui luoghi di detenzione è impossibile conoscerli tutti ed un eventuale blitz dovrebbe essere svolto in contemporanea per avere successo. Troppe quindi le forze necessarie.

Anche l’eliminazione di Hamas sembra un obiettivo difficile. La Striscia è un’area estremamente popolata ed è difficile distinguere i civili dai militanti. I bombardamenti intensivi come quelli a cui stiamo assistendo, seguiti da un’operazione convenzionale con carri e fanteria, infatti, non consentirà azioni discriminanti e selettive e le vittime civili saranno numerosissime, come già sta accadendo.

L’impatto sulle opinioni pubbliche occidentali e soprattutto arabe, tutte molto meno prudenti nei confronti di Israele di quanto lo siano per convinzione o per necessità le rispettive leadership, sarebbe quindi fortissimo esacerbando i termini di uno scontro che assume tinte escatologiche nell’immaginario collettivo. Israele deve quindi stare attenta.

Al di là di queste finalità dichiarate, quindi, l’obiettivo dell’intervento terrestre potrebbe essere più ambizioso e più semplice al tempo stesso: guadagnare al controllo israeliano l’unica porzione di territorio ancora formalmente sotto controllo palestinese, sgombrandone larga parte della popolazione verso l’Egitto.

Ma si tratterebbe di un “esodo biblico” verso il Sinai di una popolazione già stremata e priva di tutto, e la ferita così aperta sarebbe poi difficile da rimarginare, anche perché si scaricherebbe su uno dei pochi paesi non ostili ad Israele, l’Egitto, nel quale i Fratelli Musulmani, molto vicini ad Hamas, sono molto attivi. Che da un trauma del genere non esca ulteriormente rafforzata l’immagine di Hamas, almeno nel mondo arabo e islamico così sensibile ai richiami etici ed estetici del “martirio”, sembra difficile.

E un esempio del genere sarebbe difficile da trascurare per le altre realtà ostili ad Israele, come Hezbollah in Libano, fino ad ora attente a non oltrepassare la soglia di una ostilità senza condizioni che le potrebbe trascinare in un conflitto aperto e dagli esiti non scontati. Per nessuno.

In ogni caso, la questione palestinese rimarrebbe una bandiera da sventolare per tutto il mondo arabo e islamico, emancipandosi da problema di ordine pubblico interno ad Israele per assumere connotazioni internazionali ancor più forti di adesso.

Detto questo, l’attenzione a tale complessa situazione non deve far dimenticare il contesto complessivo nel quale la stessa si sviluppa. In altre parole, non si tratta di un’altra nuova guerra iniziata quasi per caso in un tempo pazzo nel quale le ragioni dello scontro bellico hanno la meglio sulla retorica della solidarietà, del dialogo e dell’accoglienza che ingenuamente credevamo essere il frutto naturale dell’”era delle democrazie”.

Al contrario, si verifica in una macro regione, quella che va dal Mar Nero al Mediterraneo centro-orientale, che è teatro di tensioni iniziate più di dieci anni fa proprio ad opera delle democrazie occidentali con le Primavere arabe che distrussero la Libia per poi incistarsi in Siria, fino ad approdare in Ucraina.

Ora, le stesse tensioni ritornano a quello che è il punto di origine di larga parte dei problemi del dopoguerra, rappresentati da un conflitto israelo-palestinese senza fine. Si tratta, in fin dei conti, di un unico conflitto che, seppur articolato in diversi “teatri operativi” vede contrapposte le stesse realtà.

Usa e Russia sono i capifila di questo scontro, non a caso entrambe presenti sia in Medio Oriente, con particolare riferimento alla Siria, che in Ucraina, su barricate contrapposte.

Dietro a loro e con loro si coagulano alleanze in larga parte inedite, lasciando presagire un nuovo assetto mondiale al termine di questo braccio di ferro non necessariamente in linea con quelle che sono le speranze di chi vorrebbe un New World Order a guida statunitense per il prossimo millennio. Cina, Iran, Turchia, Arabia Saudita da una parte e Unione Europea dall’altra sono tra i principali protagonisti di questa polarizzazione di interessi che vede contrapporsi l’Occidente allargato, autoproclamatosi Comunità Internazionale, con un Sud del Mondo determinato a rivedere i propri ruoli.

Ed è questa concentrazione di diversi attori il vero pericolo dell’attuale crisi in Palestina: infatti, l’allargamento del conflitto in Ucraina che non è riuscito al Presidente Volodymyr Zelensky, rimasto quindi solo a fronteggiare un nemico più forte con le ovvie e prevedibili conseguenze del caso, potrebbe avere luogo in Medio Oriente, dove per la Russia sarebbe problematico fronteggiare un ulteriore esplosione di ostilità che vedesse le sue truppe in Siria coinvolte in una crisi con Israele e il suo sponsor d’oltreoceano. Il gorgo che ne deriverebbe potrebbe travolgerci tutti.

In questo contesto, brilla per irrilevanza l’Unione Europea, impegnata ad affrontare una contingenza dalla quale dipenderà il suo futuro con un braccio legato dietro la schiena. Mai come in questi anni, infatti, le classi dirigenti dei paesi dell’Unione sono sembrate prive di quella visione del ruolo e della missione di un continente che confina con Asia, Medio Oriente ed Africa e che solo fino a tre o quattro anni fa coltivava l’ambizione di proporsi quale terzo interlocutore tra USA e Russia. Forse sapendo di mentire.

Foto IDF e Anas al-Sharif

 

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Marco BertoliniVedi tutti gli articoli

Generale di corpo d'armata, attualmente Presidente dell'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia, è stato alla testa del Comando Operativo di Vertice Interforze e in precedenza del Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali, della Brigata Paracadutisti Folgore e del 9° reggimento incursori Col Moschin. Ha ricoperto numerosi incarichi in molti teatri operativi tra i quali Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan.

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