Il prezzo del ritiro: l’Afghanistan si prepara al ritorno dei Talebani ?

Diciotto anni di guerra inutile, decine di migliaia di morti inclusi poco meno di 3.600 militari occidentali (tra i quali 2.430 americani, 455 britannici e 54 italiani) caduti senza scopo nel conflitto che avrebbe dovuto sconfiggere i Talebani e assicurare democrazia e libertà al popolo afghano.

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Un prezzo di sangue spaventoso nel suo complesso, specie se versato invano.

In termini di perdite militari della coalizione guidata dagli USA in media i caduti sono stati meno di 200 all’anno, un numero evidentemente rivelatosi “insostenibile” sul piano politico e sociale al punto da imporre la domanda se l’Occidente, a dispetto della sua avanzatissima tecnologia bellica, è ancora in grado di sostenere un conflitto, anche a bassa intensità.

A questo bilancio vanno aggiunti costi materiali per centinaia di miliardi di dollari nella guerra più lunga della storia statunitense e che sembra ora destinata a concludersi con lo sdoganamento dei Talebani: una ulteriore conferma della percezione (ieri dei sovietici, oggi dell’Occidente) che presidiare in armi l’Afghanistan comporta costi ben maggiori rispetto ai benefici che se ne possono trarre.

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Il 27 luglio il portavoce di Abdullah Abdullah, Chief executive officer della Repubblica afghana (di fatto il “numero 2” di Kabul dopo il presidente Ashraf Ghani) ha annunciato che i Talebani potranno partecipare alle elezioni presidenziali se accetteranno di sedersi al tavolo dei negoziati con il governo di Kabul e cesseranno la guerra.

“Le porte sono aperte in qualunque momento essi vogliano venire per discutere con il governo afghano e prendere parte al palcoscenico democratico e nazionale”. Le elezioni per scegliere il nuovo presidente si terranno il 28 settembre ma la campagna elettorale inizia ufficialmente oggi per i 18 candidati.

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Tra questi il presidente Ghani (nella foto a sinistra) in cerca di riconferma, Abdullah Abdullah (nella foto sotto)  a caccia di una rivincita dopo la sconfitta subita da Ghani nelle precedenti elezioni e l’ex consigliere alla sicurezza nazionale, Hanif Atmar.

Finora i Talebani, fautori dello Stato basato sulla sharia, hanno rifiutato il concetto stesso di democrazia e ogni negoziato con il governo afghano, definito “fantoccio” di Washington ma il 27 luglio il ministro per gli Affari di Pace, Abdul Salam Rahimi, ha affermato che una delegazione di 15 funzionari del governo incontrerà i talebani in Europa, senza però fornire ulteriori dettagli.

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Con gli USA invece i Talebani sembra stiano trovando importanti intese nei colloqui di Doha, in Qatar, basate sull’impegno i a tenere i “terroristi” fuori dall’ Afghanistan, di fatto a non dare più asilo ad al-Qaeda come accadde in passato o ad altri movimenti jihadisti: un impegno che suscita sarcasmo dal momento che il la stragrande maggioranza delle azioni terroristiche in Afghanistan le hanno effettuate proprio i Talebani.

In cambio gli USA ritirerebbero le loro truppe dal paese, circa 15 mila militari allo stato attuale, seguiti dagli altri contingenti occidentali (8mila militari tra i quali 700 italiani).

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha ribadito che vorrebbe portare via i soldati americani dall’Afghanistan il prima possibile, puntando evidentemente a spendere questo ritiro (e quello parziale dalla Siria) sul piano elettorale per conquistare il suo secondo mandato alla Casa Bianca a fine 2020.

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Un approccio simile a quello del suo predecessore Barack Obama che ritirò le forze da combattimento dall’Afghanistan (o a quello di Richard Nixon che firmò nel 1972 i fallimentari accordi di Parigi per il ritiro dal Vietnam), che suscita non poche critiche.

Accordi e ritiri raffazzonati e affrettati favoriranno forse la rielezione dei presidenti statunitensi ma non offrono alcuna garanzia.

Oggi in Afghanistan i Talebani costituiscono a principale minaccia alla sicurezza, controllano oltre la metà del territorio e sono galvanizzati dal successo conseguito contro USA e NATO nella fase più calda della guerra, combattuta tra il 2006 (anno della “riscossa talebana dopo la caduta del loro regime nel 2001) e il 2014 (anno in cui si completò il ritiro delle forze da combattimento alleate): una sconfitta che in Occidente è stata “rimossa” semplicemente evitando di parlarne.

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Secondo le Nazioni Unite, nel 2018 gli scontri hanno provocato 3.804 vittime tra la popolazione, inclusi 927 bambini. Militari e poliziotti afghani in gran parte analfabeti vengono uccisi o feriti al ritmo di 4/500 al mese negli scontri con i Talebani le cui perdite non sono rese note.

Del resto la “madre di tutte le fake news” è stata la campagna mediatica imbastita da USA e Nato dal 2010 al 2014 tesa a convincere il mondo che le truppe alleate potevano ritirarsi perché le forze afghane erano diventate capaci e autonome e potevano contrastare da sole i talebani.

U.S. Marines lower their flag during a handover ceremony, as the last U.S. Marines unit and British combat troops end their Afghan operations, in Helmand October 26, 2014. REUTERS/Omar Sobhani

Una bugia funzionale al ritiro delle forze “combat” alleate ma del tutto priva di riscontri concreti: basti pensare che oltre 400 basi e avamposti vennero demoliti per non lasciarli agli insorti poiché le truppe afghane non erano in grado di rimpiazzarvi le guarnigioni alleate

Mentre il governo afghano annunciava l’apertura nei confronti di un candidato talebano alla presidenza di Kabul, in tre città afghane gli attentati provocavano oltre 50 morti, di cui 10 nella capitale.

Ieri a Kabul i Talebani hanno attaccato un ufficio del Green Trend, il movimento politico di Amrullah Saleh, ex ministro dell’Interno e candidato alla vicepresidenza con il presidente uscente Ashraf Ghani provocando almeno 20 morti e 50 feriti. Quattro insorti si sono asserragliati nell’ edificio per sei ore prima di essere uccisi dalle forze di sicurezza.

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I governi di Stati Uniti e Afghanistan hanno rilasciato una dichiarazione congiunta ribadendo l’impegno ad accelerare gli sforzi diplomatici per arginare lo spargimento di sangue.

Il presidente Ghani e il segretario di Stato americano Mike Pompeo concordano che “è giunta l’ora di accelerare gli sforzi per raggiungere la fine negoziata della guerra in Afghanistan”.

Al di là della fretta con cui Usa ed alleati europei vogliono ritirarsi da Kabul, non sembra avere alcun senso negoziare l’ingresso nel processo democratico e nelle istituzioni create nel 2001, dopo la caduta del regime Talebano, ai fautori di quello stesso regime.

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Quanta debolezza dimostra chi è pronto ad offrire posti in parlamento e potenzialmente nel governo ai fautori del martirio islamico, a chi usa attentatori suicidi per fare strage, ai jihadisti, a chi non solo pretende l’obbligo del burqa per tutte le donne ma attacca le scuole femminili buttando acido in faccia alle alunne, a chi fa indossare giubbotti esplosivi a bambini e disabili per mandarli a farsi esplodere ai check-point delle forze afghane e alleate?

In questo contesto l’accordo che gli Usa stanno negoziando rischia di spianare la strada per Kabul ai Talebani che abbinerebbero l’uso delle armi alla pressione sociale e politica approfittando della estrema debolezza di Occidente e governo afghano.

In this photograph taken on October 9, 2016, Afghan National Army commandos take position during a military operation in Helmand province. / AFP PHOTO / NOOR MOHAMMAD

Saigon cadde due anni e tre mesi dopo la firma degli accordi di Parigi, probabilmente Kabul non resisterebbe così a lungo dopo il ritiro degli alleati.

L’accordo che si sta delineando rischia quindi di vanificare 18 anni di sforzi pagati con tanto sangue (soprattutto afghano), provocando  un gigantesco esodo da Kabul (come accadde a Saigon nel 1975) ma soprattutto conferma al mondo che Usa e Occidente hanno il brutto vizio di abbandonare gli alleati regionali e non sono in grado di reggere il fardello di un conflitto pagandone il relativo prezzo.

Dopo aver perso la guerra in Afghanistan con l’affrettato ritiro delle forze da combattimento tra il 2011 e il 2014, oggi sui due lati dell’Atlantico sembrano tutti ben determinati a perdere anche la pace.

@GianandreaGaian

Foto: Isaf, Reuters, AFP, Pajhwok e US DoD

 

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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