Il braccio di ferro Usa-Corea del Nord e la variabile Iran

da Il Mattino del 26 settembre 2017

Continua il braccio di ferro tra Washington e Pyongyang: dopo il sorvolo di bombardieri B-1 vicino alle coste nordcoreane il ministro degli Esteri Ro Yong Ho ha accusato Donald Trump di aver dichiarato guerra al suo paese e ha minacciato di abbattere i bombardieri che dovessero volare vicino allo spazio aereo del suo paese.

Pronta la replica del Pentagono che assicura tramite un portavoce che “gli Stati Uniti hanno un arsenale immenso da fornire al presidente Trump per affrontare la questione della Corea del Nord”.

Non c’è nulla di nuovo in questa esibizione muscolare fatta di dichiarazioni roboanti, test missilistici e sorvoli di jet. Semmai la novità strategica degli ultimi giorni è rappresentata dal fatto che anche l’Iran è entrato a tutti gli effetti nel mirino di Donald Trump, che fin dalla campagna elettorale aveva annunciato la volontà di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo internazionale che aveva permesso nel 2015 di fermare il programma nucleare di Teheran.

La decisione, a quanto pare già presa da Trump che la sottoporrà al Congresso, cancellerebbe uno dei pochi successi in politica estera conseguiti dall’Amministrazione Obama con l’intento dichiarato di indurre l’Iran a nuovi negoziati che offrano maggiori garanzie a Usa, Israele e sauditi circa l’impossibilità che la potenza scita disponga un giorno di armi strategiche in grado di minacciare i suoi vicini.

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Si tratta però di un obiettivo aleatorio o del tutto finto, teso a nascondere il fine di esercitare una forte pressione militare, politica ed economica sull’Iran simile a quella messa in atto nei confronti della Corea del Nord che però, a differenza di Teheran, dispone già di un ampio arsenale di bombe A e forse anche H.

Le pressioni sull’Iran annunciate da Trump influenzano infatti direttamente la crisi coreana e danno adito a interpretazioni contraddittorie.

Rappresentano un clamoroso autogol se l’obiettivo degli Usa è giungere alla distensione e al negoziato con Pyongyang, oppure costituiscono un deliberato tentativo (riuscito) di escalation se lo scopo degli Usa fosse invece alzare ulteriormente la tensione con Kim Jong-Un indebolendo il tentativo cinese di varare un negoziato.

Tutti gli osservatori internazionali hanno infatti sottolineato lo scrupoloso rispetto dell’intesa sulla rinuncia alle armi nucleari da parte di Teheran e in questo contesto le minacce di Trump dimostrano da un lato quanto sia pretestuosa l’aggressività di Washington e dall’altro che i cosiddetti “stati canaglia” restano nel mirino degli Usa anche se privi di armi atomiche.

Così la Casa Bianca conferma a Pyongyang che l’arsenale nucleare costituisce l’unica garanzia credibile per la sopravvivenza del regime comunista, mentre a Teheran i “falchi” possono ribadire che fu un errore negoziare la rinuncia all’atomica.

Il presidente Hassan Ruohani, che per accettare nel 2015 l’intesa negoziata con Obama sostenne duri scontri con gli ambienti più oltranzisti del regime e del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, ha già fatto sapere che l’Iran non accetterà mai di annullare il trattato firmato due anni or sono né di sostenere nuovi negoziati.

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D’altra parte è chiara la volontà statunitense di buttare all’aria un accordo che non aveva soddisfatto Gerusalemme e Riad, convinti che l’intesa non avrebbe fermato la corsa alla bomba degli ayatollah nonostante le garanzie di Mosca, alleato di ferro di Teheran anche nel conflitto siriano in cui le forze iraniane si sono rivelate indispensabili a sconfiggere l’Isis e agli altri movimenti jihadisti sunniti.

Aspetto non secondario poiché se il successo contro le milizie jihadiste ha rafforzato la “Mezzaluna Scita” che unisce Iran, Iraq, Siria e Libano Meridionale in mano a Hezbollah, è altrettanto vero che risulta insostenibile l’accusa rivolta dagli Usa all’Iran di appoggiare il terrorismo islamico, sponsorizzato invece proprio dalle monarchie del Golfo alleate di Stati Uniti ed Europa.

Al tempo stesso l’ira di Washington per lo sviluppo dei missili balistici iraniani in collaborazione con la Corea del Nord appare come un pretesto ulteriore per giustificare la denuncia dell’accordo nucleare come dimostrano anche le polemiche scatenate nei giorni scorsi dal test del missile balistico Khorramshahr.

L’arma ha un raggio d’azione limitato a circa 2mla chilometri, come altri vettori del tipo Shahab 3 già in dotazione ai reparti strategici dei pasdaran che dispongono anche di armi con raggio d’azione compreso tra 500 e 4mila chilometri derivati da Scud/Hwasong, Nodong e Taepodong nordcoreani. La novità semmai è che il Khorramshahr pare sia stato sviluppato interamente in Iran anche se non manca la tecnologia nordcoreana mutuata probabilmente dai vettori del tipo Musudan.

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La collaborazione tra Pyongyang e Teheran è consolidata da decenni nei settori balistico e delle armi di distruzione di massa ma quando ha accettato di fermare il suo programma nucleare l’Iran ha precisato che quello balistico non era negoziabile.

Il missile balistico è un’arma che esalta il suo valore solo se dotata di testate chimiche o nucleari e sono evidenti le ragioni di deterrenza per cui l’Iran, anche se privo (per ora) di armi atomiche, vuole mantenere la capacità di colpire con testate convenzionali o chimiche i suoi nemici arabi e israeliani, i cui arsenali strategici non sono certo poca cosa anche se meno “pubblicizzati”.

Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman sostiene che il lancio del missile Khorramshahr “è la prova che l’Iran desidera diventare una potenza mondiale e che vuole minacciare non solo le nazioni del Medio Oriente”.

Posizione discutibile, forse legittima nell’ottica strategica dello Stato ebraico, ma cosa dovrebbe dire l’Iran e il resto del mondo di fronte all’arsenale strategico israeliano che conterebbe (Gerusalemme non ha mai ammesso di possedere armi atomiche) un centinaio di testate termonucleari e almeno 200 missili balistici Jericho?

Armi in grado di colpire tutto il Medio Oriente e gran parte del mondo considerato che il Jericho 3, a tre stadi, è accreditato di un raggio d’azione fino a 11mila chilometri, come il missile intercontinentale testato dai nordcoreani in luglio.

Anche i sauditi dispongono di oltre un centinaio di missili balistici con gittata fino a 3mila chilometri puntati sull’Iran: vettori cinesi del tipo Dong Feng 3 affiancati o sostituiti negli ultimi tre anni dai più moderni Dong Feng 21. Riad non dispone ufficialmente di armi atomiche ma è considerato quanto meno plausibile che, dopo aver finanziato a suon di petrodollari la “bomba islamica” pakistana, possa ottenere alcune testate in caso di necessità direttamente da Islamabad.

@GianandreaGaian

Foto Israelrising, Haaretz, US DoD e KCNA

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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