Zelensky alle corde ed Europa umiliata: a Vilnius trionfano Erdogan e Biden

 

(aggiornato alle ore 21,00)

Il summit della NATO a Vilnius ha evidenziato i possibili sviluppi del conflitto in Ucraina e ha fornito un quadro brutale ma realistico dell’assetto strategico che si sta configurando in Europa le cui conseguenze saranno misurabili nel tempo.

Nella capitale lituana la NATO ha “congelato” l’ingresso dell’Ucraina rimandandolo a data da destinarsi, come volevano gli USA e la gran parte degli Stati membri contrastati in parte dai britannici e soprattutto da polacchi e baltici che avrebbero preferito la definizione di un preciso percorso di adesione di Kiev oltre a un più rapido e massiccio invio di aiuti militari (nella foto sotto un autobus di Vilnius).

“Saremo in grado di estendere un invito all’Ucraina ad aderire all’Alleanza quando gli alleati saranno d’accordo e le condizioni saranno soddisfatte” si legge nella dichiarazione conclusiva del vertice. Un esito previsto, voluto dagli Stati Uniti ma anche da quasi tutti i membri della NATO che non intendono imbarcare l’Ucraina finché è in guerra con la Russia, neppure con una road-map che stabilisca i tempi per l’ingresso di Kiev.

In conferenza stampa il segretario generale, Jens Stoltenberg, ha provato a spiegare che l’Ucraina porta a casa un successo rispetto alla dichiarazione di Bucarest del 2008, quando la NATO aprì sulla carta le porte a Kiev (ma la guerra con la Russia non era immaginabile) perché oggi è previsto un avvicinamento all’Alleanza Atlantica basato sui passi avanti che farà l’Ucraina in termini di riforme politiche, sociali ed economiche e di interoperabilità militare con le forze armate dei paesi della NATO.

Stoltenberg ha ammesso però che “tutti gli Alleati sono d’accordo che quando una guerra è in corso non è il momento per fare dell’Ucraina un membro a pieno titolo dell’Alleanza. La priorità è fare in modo che l’Ucraina vinca, perché se perde non avrà alcun senso parlare di NATO o adesione”.

In cambio il governo di Kiev si impegna a democratizzare il paese attuando riforme del sistema giudiziario, anticorruzione, governance delle imprese, rispetto dello stato di diritto e il controllo civile e democratico delle forze armate.

Impegni certo eccessivi per gli attuali standard ucraini che vedono media imbavagliati, elezioni rinviate, tutte le opposizioni (12 partiti) posti fuorilegge perché “filo russi”, corruzione alle stelle e diritti umani e civili calpestati anche in virtù della legge marziale.

Anche alla luce di queste valutazioni appare quasi ironico che Biden, intervenendo all’Università di Vilnius, abbia affermato il 13 luglio che “l’Ucraina continua a compiere progressi nella democrazia e nelle riforme necessarie. Continueremo a sostenere l’Ucraina che sta difendendo non solo sé stessa ma anche i valori che noi rappresentiamo nel mondo occidentale”.

Per addolcire la pillola a Zelensky gli alleati hanno definito, sulla carta, una più rapida consegna dei vecchi caccia F-16 radiati dopo 40 anni di servizio da Olanda, Belgio e Danimarca mentre i membri del G7 hanno annunciato accordi bilaterali con Kiev per continuare a sostenere il riarmo e l’economia ucraina come hanno confermato anche gli annunci delle singole nazioni registrati prima, durante e dopo il vertice.

 

Zelensky furioso

Le offerte dell’Occidente miravano a calmare la delusione di Volodymyr Zelensky che la sera dell’11 luglio ha definito “assurdo che non sia fissato il calendario né per l’invito né per l’adesione dell’Ucraina. Mentre allo stesso tempo viene aggiunta una formulazione vaga sulle condizioni persino per l’invito. Sembra che non ci sia disponibilità né a invitare l’Ucraina nella NATO né a renderla membro dell’Alleanza. Ciò significa che viene lasciata una finestra di opportunità per negoziare l’adesione alla NATO nei colloqui con la Russia. E per la Russia, questo significa motivazione per continuare il suo terrore. L’incertezza è debolezza”.

Il presidente ucraino ha colto nel segno, individuando probabilmente il vero obiettivo di USA e NATO che conferma per l’Ucraina il ruolo di pedina sacrificabile nel confronto con Mosca. Sembrano dimostrarlo anche le dure reazioni alle sue parole e gli scarsi entusiasmi mostrati dagli altri capi di stato e di governo nei confronti del presidente ucraino, fino a ieri idolatrato.

Del resto nonostante i proclami altisonanti di Kiev che hanno annunciato vittorie militari per ora inesistenti con l’obiettivo di portare qualche successo a Vilnius, i membri della NATO hanno ben compreso che il fallimento della controffensiva ucraina e l’esaurimento progressivo degli aiuti militari che l’Occidente può fornire a Kiev imporranno presto di negoziare un accordo con la Russia.

Il tema non è liquidabile in poche battute politiche perché la controffensiva voluta da Zelensky e che in cinque settimane sembra essere costata all’esercito ucraino oltre 50 mila morti e feriti per riconquistare una superficie di territorio nazionale più piccola dell’Isola d’Elba, era stata voluta ad ogni costo da Zelensky (secondo alcune voci contro il parere dei vertici militari) con l’obiettivo di portare al summit di Vilnius successi tangibili da presentare agli alleati.

Non a caso in queste ore circolano di nuovo indiscrezioni circa pressioni dei comandanti militari per fermare la controffensiva e cessare di sacrificare inutilmente truppe e mezzi necessari invece a contrastare nuove offensive russe.

Difficile dire se Mosca sia disponibile al negoziato e se le trattative coinvolgeranno direttamente gli Stati Uniti: di certo la base su cui i russi si dissero pronti al confronto mesi or sono riguardava la cessione delle quattro regioni ucraine in buona parte occupate e annesse alla Federazione con un referendum nel settembre scorso e lo status neutrale dell’Ucraina.

Pragmaticamente, in vista di un possibile negoziato i membri della NATO hanno ritenuto di non assumere impegni formali con Kiev che peraltro avrebbero irritato ulteriormente Mosca. Soprattutto gli Stati Uniti, alla vigilia di una campagna elettorale presidenziale in cui l’escalation della tensione con la Russia e il rischio paventato di guerra nucleare non aiuteranno Biden a cercare un secondo mandato.

A Mosca, come era prevedibile, hanno subito evidenziato le difficoltà di Kiev e il portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha ironizzato sull’esito del summit di Vilnius canzonando gli ucraini per essersi fidati dell’Occidente. “Sciocchi, dovevate imparare le regole prima che iniziasse il gioco, non dopo”, ha scritto su Telegram. “Questo è l’ordine mondiale basato su regole inventate dagli occidentali. Chi è più intelligente non vi partecipa, poiché non ci sono regole, vengono inventate sul momento e modificate se il gioco non porta al risultato desiderato”.

Zelensky umiliato

I russi non sono stati i soli a umiliare i vertici ucraini per la brusca reazione alle delusioni di Vilnius e anche il ministro della Difesa britannico Ben Wallace ha bacchettato Zelensky.

“Piaccia o no, la gente dei Paesi occidentali vorrebbe vedere un po’ di gratitudine dall’Ucraina. A volte si chiede ai Paesi di rinunciare alle proprie scorte di armi. Diversi Paesi occidentali stanno cedendo propri stock di armi agli ucraini e non possono essere considerati come una sorta di Amazon cui indirizzare ordini di materiale bellico a richiesta. Talora i toni vanno calibrati ad esempio per convincere i parlamentari americani o per persuadere politici dubbiosi di altri Paesi”.

Wallace, ex ufficiale del British Army,  puntava a diventare segretario generale della NATO prima che gli Stati Uniti decidessero di estendere di un anno il mandato di Stoltenberg, secondo indiscrezioni per permettere a Ursula von der Leyen di terminare il mandato di presidente della Commissione Ue per poi nominarla al vertice politico della NATO.

L’eventuale malumore di Wallace (che ha annunciato oggi le sue dimissioni “al prossimo rimpasto di governo”) nei confronti di Zelensky potrebbe quindi risultare spiegabile ma le sue parole hanno avuto ampia eco sui media britannici mentre da quanto emerge da indiscrezioni e testimonianze anonime l’insofferenza verso le pretese dell’Ucraina e del suo presidente sembra essersi diffusa rapidamente tra i tanti che fino a ieri lo osannavano.

Fonti anonime dell’Amministrazione statunitense hanno fatto infatti sapere al Washington Post che a Vilnius c’è stata molta irritazione per le critiche emerse nel comunicato di Zelensky.

La reazione della Casa Bianca, secondo le fonti, dimostra la “crescente frustrazione che si respira all’interno della NATO”, in relazione alle richieste di Zelensky. Anche “alcuni dei suoi sostenitori più accaniti hanno iniziato a dubitare dell’utilità di questi suoi atteggiamenti”. Una delle fonti ha affermato che la delegazione statunitense presente al summit ha reagito “furiosamente” al messaggio pubblicato da Zelensky.

L’irritazione di molti in Europa e USA nei confronti delle continue crescenti pretese di Kiev finora era rimasta in buona parte sotto traccia ma a Vilnius ha cominciato ad emergere prepotentemente. Forse non solo per le pretese e l’arroganza (entrambe non nuove) di Zelensky ma soprattutto perché pesano i mancati successi militari di Kiev, nonostante l’enorme quantità di armi fornite dagli stati membri della NATO cui si aggiungeranno presto le munizioni a grappolo americane, i missili da crociera francesi SCALP e altri veicoli corazzati.

 

Zelensky pentito

Già il 12 luglio il presidente ucraino ha dimostrato di aver colto che il vento stava cambiando e si è affrettato a rilasciare dichiarazioni più ossequiose nei confronti dei suoi sponsor.

“Sono fiducioso che con la fine della guerra, l’Ucraina entrerà finalmente nella NATO. Sono grato al presidente americano Biden e a tutti gli americani per il loro sostegno” ha detto nella conferenza stampa congiunta Stoltenberg.

“Sono grato per il sostegno di vitale importanza, per l’Ucraina e per gli ucraini, per la nostra libertà” ha scritto su Twitter. Il 12 luglio, giornata di chiusura del Summit di Vilnius, Zelensky in conferenza stampa ha risposto a Wallace: “Credo che siamo sempre stati grati al Regno Unito. Siamo sempre stati grati al primo ministro e al ministro della Difesa perché il popolo nel Regno Unito ha sempre sostenuto l’Ucraina. Siamo grati per questo”.

Il presidente ucraino ha aggiunto di “non aver capito” i commenti del ministro della Difesa britannica. “In quale altro modo dovrei esprimere le mie parole di gratitudine? Oppure potremmo alzarci la mattina ed esprimere personalmente le nostre parole di gratitudine al ministro. Davvero, non capisco l’essenza della questione. Siamo grati al Regno Unito”.

Lo stesso giorno, rivolgendosi all’opinione pubblica ucraina, il presidente ha detto che “al vertice ho visto il sostegno di Stati Uniti, Germania, Francia, Polonia e altri leader di Paesi che mi hanno assicurato che aiuteranno e sosterranno l’Ucraina finché sarà necessario. Ma voi e io dobbiamo capire che tutto questo dipende dalle nostre azioni sul campo di battaglia.

E’ molto importante non solo che i nostri alleati ci sostengano, ne abbiamo bisogno per mantenerci motivati, per sapere che cosa stiamo facendo, che stiamo andando verso la vittoria e il ripristino della nostra integrità territoriale. Non possiamo restare fermi e aspettarci che qualcuno ci sostenga per decenni”.

Il fattoi che abbia ammorbidito i toni, non significa che Zelensky non abbia preso atto dell’evoluzione nei rapporti con l’Occidente mentre a Kiev altri non hanno nascosto frustrazione e amarezza per l’esito del vertice di Vilnius.

“L’Ucraina entrerà un giorno nella NATO ma fino ad allora dobbiamo ricordare che le nostre vite e la nostra sicurezza sono solo nelle nostre mani. Ringraziamo i nostri partner, ma ricordiamo loro che anche il futuro e la sicurezza dell’Europa è nelle nostre mani. E oggi queste mani sono coperte da terribili calli sanguinanti per dover sempre reggere armi…” ha scritto su Twitter il consigliere presidenziale Mykhailo Podolyak.

L’ex presidente ucraino Petro Poroshenko, il 13 luglio ha evidenziato che Kiev non ha ricevuto l’invito tanto atteso ad aderire all’alleanza o alcuna garanzia che tale offerta sarà fatta in futuro. “Non riesco a capire come si possa dire che il vertice di Vilnius è stato un grande successo per l’Ucraina”, ha detto durante il suo discorso al parlamento ucraino trasmesso dai media ucraini. “Non abbiamo bisogno di parole sulle porte aperte. Se le porte sono aperte, fateci entrare. Se non ci fate entrare, le porte restano chiuse”.

Il vertice di Vilnius sembra quindi aver chiarito a Zelensky e ai suoi che gli alleati occidentali sono pronti a celebrare gli altissimi valori ideali per cui questa guerra deve essere combattuta ma solo “fino all’ultimo ucraino”.

E’ forse presto per affermare che l’indirizzo preso a Vilnius potrebbe portare gli ucraini in coda alla lunga lista degli alleati da “sostenere finché sarà necessario” poi abbandonati dagli USA e dall’Occidente (i sudvietnamiti, gli iracheni, i curdi in almeno tre occasioni, gli afghani…) ma se vi sarà una svolta in tal senso lo si vedrà probabilmente entro la fine dell’estate con l’intensificarsi dei contatti tra Mosca e Washington, prima di tutto a livello di vertici dell’intelligence.

Del resto lo stesso Stoltenberg, che da tempo andava ripetendo che i successi della controffensiva ucraina avrebbero permesso a Kiev di sedersi al tavolo dei negoziati con maggiore forza contrattuale, ha detto il 13 luglio che le trattative per risolvere il conflitto in Ucraina avverranno solo quando l’Ucraina sarà pronta.

“Quello che sappiamo è che quanto più sostegno militare forniamo agli ucraini, quanto più territorio riescono a liberare, tanto più forte sarà la loro mano al tavolo dei negoziati. Non si tratta della Nato che negozia per conto dell’Ucraina”.

Di diverso avviso è invece il premier ungherese Viktor Orban il quale sostiene apertamente che “se gli americani lo volessero domani mattina ci sarebbe la pace. E perché gli americani non lo vogliano è una domanda a cui tutto il mondo sta pensando. Dopo tutto, l’Ucraina ha perso la sua sovranità: non ha denaro, né industria militare, né capacità di produzione militare propria. Riceve denaro principalmente dagli Stati Uniti, fondi militari sempre dagli americani e dall’Occidente”.

 

Il trionfo del Sultano

Oltre agli Stati Uniti di Biden anche la Turchia di Recep Tayyp Erdogan esce trionfante dal summit di Vilnius incassando un triplice bottino dal via libera dato all’ingresso della Svezia nella NATO.

Ankara ha ottenuto innanzitutto garanzie da Stoccolma sullo stop agli aiuti ai curdi (“terroristi” per i turchi, dissidenti sacrificabili per NATO e UE), poi garanzie da Washington sulle forniture di nuovi cacciabombardieri F-16 Viper e garanzie dall’Unione Europea circa l’espansione degli accordi economici di libero scambio con la rimozione dell’obbligo di visto per i cittadini turchi che intendono recarsi in Europa e la prospettiva (da definire) dell’ingresso della Turchia nella Ue.

Alla vigilia del vertice Erdogan aveva chiesto un “messaggio chiaro e forte” sull’adesione della Turchia alla UE, che non è in agenda a Bruxelles, è osteggiata da molti in Europa ma è stata invece caldeggiata dagli Stati Uniti.

“Il presidente Biden ha sempre appoggiato l’aspirazione della Turchia ad entrare nell’Unione Europea. Gli Stati Uniti non fanno parte di questa organizzazione e quindi non hanno voce in capitolo, ma quella resta la nostra posizione”, ha detto in un briefing il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan.

Accomodante la risposta del presidente del consiglio europeo Charles Michel, che dopo “l’ottimo incontro” con Erdogan, ha twittato che “sono state esplorate le opportunità per riportare la cooperazione Ue-Turchia in primo piano e rivitalizzare le nostre relazioni”.

Meglio ricordare che Michel è colui che nell’incontro con Erdogan ad Ankara nell’aprile 2021 lasciò seduta sul divano Ursula von der Leyen in una delle performance più imbarazzanti (ed esilaranti) che hanno visto protagonista l’attuale Commissione Ue.

Non è superfluo ricordare l’ostilità turca nei confronti dell’Europa, dal ricatto pluriennale sui migranti illegali (la gran parte delle rotte utilizzate per l’immigrazione clandestina sono gestite o controllate dalla Turchia) al sostegno ai gruppi jihadisti per non parlare del ruolo turco nel contrastare l’integrazione delle comunità islamiche nei diversi paesi europei, inclusa la Francia.

Non ci sono neppure dubbi sul fatto che la Turchia non coltivi certo il “sogno europeo” o “si senta parte dell’Europa” tenuto conto che il neo-ottomanesimo di Erdogan sta portando Ankara ad accentuare la penetrazione nei Balcani, nell’Egeo, in Libia e non certo a beneficio degli interessi europei.

Certo gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a sottrarre la Turchia dall’intesa cordiale con la Russia di Putin ma il fatto che la UE sia oggi disposta a concedere tanto alla Turchia in cambio dell’ingresso della Svezia (già membro dell’Unione) nella NATO, la dice lunga su quanta autonomia questa Commissione Ue abbia da Washington anche nella gestione dei suoi affari interni.

Vassalla degli interessi statunitensi, piegata a quelli turchi e pronta a pagare il conto per l’allargamento della NATO, l’Unione Europea sembra voler fare di tutto per confe4rmare di fatto rinunciato a tutelare le nazioni e i popoli che la compongono.

Del resto se un membro di spicco dell’amministrazione statunitense come Sullivan può permettersi di dichiarare pubblicamente l’endorsement di Washington all’ingresso della Turchia nella Ue, significa che l’obiettivo statunitense di indebolire l’Europa è stato pienamente raggiunto e la guerra in Ucraina ha ridotto al lumicino la sovranità e persino la dignità della UE, anche negli aspetti formali.

Superficiale e un po’ dilettantesco appare infine l’entusiasmo registrato sulle due sponde dell’Atlantico per le posizioni di Erdogan, fino a ieri  ingombrante “dittatore” (come lo definì un premier italiano) ma da un paio di giorni celebrato in Occidente perché avrebbe voltato le spalle a Putin con il via libera all’ingresso della Svezia nella NATO e la consegna a Kiev dei comandanti della Brigata Azov, ospitati a Istanbul in base agli accordi con russi e ucraini dopo la caduta di Mariupol.

La Turchia di Erdogan non era filo-russa né è diventata ora filo-Ucraina o filo-Occidentale. Cura semplicemente (ed egregiamente) i propri interessi nazionali e la liberazione degli ufficiali dell’Azov ha rappresentato probabilmente una rappresaglia per i pesanti bombardamenti aerei russi dei giorni scorsi sui territori del Nord della Siria controllati dalle milizie filo-turche.

Meglio non dimenticare che i conflitti in Libia, Siria e Armenia/Azerbaigian sono stati conclusi da intese dirette tra Mosca e Ankara con compromessi che hanno tagliato fuori gli occidentali e che Erdogan non ha interesse a scontrarsi con Putin, atteso ad Ankara in agosto. Inoltre la Turchia è diventata il secondo fornitore commerciale della Russia dopo la Cina, con una crescita dell’export quasi triplicata dal 2022 grazie soprattutto al settore abbigliamento, dove i prodotti turchi hanno rimpiazzato quelli europei (e italiani).

Le aperture alla Svezia nella NATO, oltre a portare importanti benefici politici, economici e militari alla Turchia, permetteranno ad Erdogan di riproporsi come mediatore per rilanciare gli accordi sul grano e per far cessare la guerra con il probabile benestare di tutti.

“Se le parti acconsentono o vogliono che mediamo, saremmo felici di farlo. Proprio come Istanbul è diventata il centro del corridoio del grano, siamo sempre pronti per fare da mediatori su tali questioni. La Turchia è uno dei Paesi che può incontrare sia la Russia che l’Ucraina. Ma fino a ora nessuno ci ha chiesto nulla”, ha affermato Erdogan che a Vilnius ha colto con perfetto tempismo le opportunità offerte  dal nuovo corso degli eventi. Se la guerra terminerà con una trattativa, i turchi faranno di tutto per mediarla e condurla in porto.

@GianandreaGaian

Foto: NATO, Euronews e Ministero Difesa Ucraino

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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