Erdogan e la bambina “martire”: scene da una Turchia che non vogliamo vedere
di Stefano Magni da Nuova Bussola Quotidiana
Comizio del partito islamico Akp, al governo in Turchia, a Kahramanmaras, nel sud del paese. Parla il presidente Erdogan. Nel pubblico c’è Amine Tiras e ha sei anni. E’ vestita con l’uniforme completa dei berretti bruni, le forze speciali attualmente impegnate in Siria, nell’enclave curda di Afrin, contro le milizie dell’Ypg.
Erdogan la chiama sul palco (video). Lei, visibilmente emozionata, chiusa nella sua divisa che le sta molto larga, si sente particolarmente a disagio e si mette a piangere. “Una soldatessa dei berretti bruni non piange, lo sai?” la rimprovera dolcemente il presidente turco. Poi le trova una bandiera turca in una delle tasche e trova il suo modo per consolarla e incoraggiarla: “Ha la bandiera turca in tasca. Se diventerà una martire, a Dio piacendo, la avvolgeremo con quella. Sei pronta a tutto, non è vero?”. Certo, come no. Il modo migliore per consolare una bambina, che infatti continua a piangere. Bacio del presidente sulla guancia e tanti auguri di buon martirio.
Queste scene siamo solite vederle nella Tv palestinese o libanese, in quei programmi di incoraggiamento all’omicidio-suicidio, con protagonisti bambini con le divise dei movimenti terroristi Hamas, Brigate Al Aqsa o Hezbollah.
Si tratta di una delle peggiori espressioni della cultura della morte jihadista. Un doppio abuso, un incoraggiamento a uccidere e morire, per di più su bambini-soldato. Un insegnamento che rovina la vita, anche ai sopravvissuti.
Ma siamo, appunto, abituati a vedere queste scene nei movimenti terroristi. Non in una grande, militarmente potente ed economicamente ricca nazione che aspira a diventare membro dell’Ue. La Turchia è alle porte, sta cambiando e sta diventando qualcosa di completamente diverso da quella che ci immaginavamo che fosse?
Nella scena di Erdogan e la bambina, ormai diventata famosa e virale, oggetto di dibattito soprattutto in Turchia, ci sono sia elementi di continuità che di novità. L’elemento marziale è sempre stato presente nella Repubblica Turca fondata da Ataturk e il martirio è tema frequente anche fra i più laici dei militari. Ogni bambino è un futuro soldato, per tradizione.
E ogni soldato deve essere pronto a immolarsi. Il bambino armeno, personaggio non secondario del film di propaganda I leoni di Gallipoli, si converte all’islam e si immola in un attentato omicida-suicida per uccidere il vescovo armeno e i suoi complici, intenti a cospirare contro l’esercito turco: e questo in un film del 1964, quando la Turchia era laicissima insospettabile di derive islamiche.
Lo stesso mito fondativo della Repubblica Turca, la battaglia di Gallipoli, la vittoria ottenuta (fra gli altri anche da un giovane Mustafa Kemal, futuro Ataturk) contro le potenze dell’Intesa nel 1915, è una gigantesca esaltazione al martirio e al suicidio. I turchi vi persero 100mila uomini, il doppio delle perdite subite dalle potenze sconfitte, in sei mesi di innumerevoli cariche suicide, alla baionetta, contro le teste di sbarco trincerate dei nemici.
Quindi non è cambiato nulla? In parte sì. Perché nel frattempo, nel quasi-ventennio di Erdogan e Akp al potere, l’islam si è espanso in ogni settore della vita associata turca. Non è una tendenza spontanea, ma politicamente diretta.
Erdogan e il suo partito stanno utilizzando come strumento di indottrinamento il Ministero degli affari religiosi, in turco Diyanet. Stabilito nel 1924 per il motivo opposto, cioè controllare la religione musulmana, adesso ha l’obiettivo di “formare una generazione pia”, ligia ai precetti della sharia.
E’ un’istituzione dotata di un budget immenso, pari a 1 miliardo e mezzo di euro e forte di 140mila funzionari in tutto il paese, con le sue televisioni, un suo sito Internet molto attivo e un numero verde per rispondere ad ogni singola curiosità o dubbio sull’applicazione quotidiana della legge coranica da parte dei cittadini.
Secondo un reportage pubblicato su Le Monde, il 3 febbraio Diyanet ha ricordato a tutti che si deve usare solo la mano destra per mangiare, perché “i demoni mangiano e bevono con la sinistra”. Qualche mancino ha protestato. La polemica peggiore era scoppiata lo scorso autunno, quando sempre Diyanet aveva pubblicato un dizionario dei concetti religiosi in cui annunciava che l’età minima per il matrimonio era di 9 anni per le femmine.
Di fronte alla polemica virulenta e internazionale che ne era seguita, il sito aveva cancellato il passaggio e negato di aver mai inteso promuovere i matrimoni minorili. Diyanet si sta espandendo nelle università, aprendo sale di preghiera al loro interno e progettando di costruire nuove moschee universitarie.
Il tutto per promuovere una cultura che è anche platealmente anti-scientifica, anti-razionale in senso lato. Come si può già vedere in alcuni esempi eclatanti, come quello di Tolgay Demir, capo della gioventù dell’Akp di Istanbul, che insiste nel dire che la terra sia piatta, in un articolo pubblicato sul sito del partito. Chi non è d’accordo, a suo modo di vedere, è vittima di una congiura dei massoni e delle foto false della Nasa.
E quindi: sì, la Turchia ha un problema. Un problema anche nuovo rispetto al vecchio nazionalismo. La scenetta di Erdogan e la bambina rappresenta solo la punta dell’iceberg di questo problema, di fronte al quale l’Europa non può più permettersi di voltarsi dall’altra parte.
Per ora i rapporti fra Ue e Ankara sono stati improntati sulla fredda cordialità. L’Ue contesta la violazione dei diritti umani, talvolta ottiene qualcosa, nella maggior parte dei casi chiude un occhio o due se la politica di Ankara è aggressiva, in Siria così come sul fronte dell’Egeo, paga Erdogan per la gestione dei profughi dalla Siria, perché non sbarchino più sulle coste egee della Grecia. E comunque mantiene aperta l’opzione di un accesso turco all’Europa. Manca un tassello importante, in questa politica: quello culturale.
Un’Ue che vanta il suo agnosticismo dei valori non è probabilmente in grado di capire che la Turchia rappresenta, prima di tutto, una formidabile sfida ideologica e culturale alle nostre porte.
Foto: EPA, Anadol e DPA
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