L’Amministrazione Biden alla prova con Russia e Cina

Già in tempi non sospetti avevamo preventivato che la politica estera dell’amministrazione Biden non sarebbe stata necessariamente portatrice di stabilizzazione e contenimento delle attuali situazioni di crisi geo-politica mondiale. I primi due mesi della nuova amministrazione sembrerebbero andare perfino aldilà di quanto avevamo preventivato.

I rapporti con i principali competitori geo-politici degli USA (in primis la Cina e in seconda battuta la Russia) sono divenuti sicuramente più tesi. Le relazioni tra USA e Cina sembrano aver raggiunto il punto più basso da quando, quasi cinquant’anni fa, con il presidente Richard Nixon ci fu il riconoscimento della Cina Popolare, mentre quelle con la Russia sono al loro punto peggiore da quando, oltre trent’anni fa, con Reagan e Gorbaciov ebbe inizio lo sfaldamento del blocco sovietico.

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In questo contesto molto delicato, le prime mosse di Washington appaiono finalizzate essenzialmente a marcare un cambio di passo nei confronti dell’amministrazione Trump e a mandare messaggi all’elettorato domestico.

Nell’immaginario dell’elettore medio statunitense la Cina è un competitor economico e geo-politico da contrastare.

La Russia, nonostante tutto, viene da molti ancora percepita come un “nemico” senza se e senza ma (l’impero del male di reaganiana memoria), nonostante il suo ridimensionamento geopolitico e il fatto che non sia più l’araldo del comunismo. In realtà, Washington non sembra accettare che, a differenza di quanto fatto da Francia e Regno Unito dopo la Prima Guerra Mondiale e da Giappone e Germania dopo la Seconda, la Russia pur uscendo decisamente sconfitta dalla Terza guerra mondiale (la “guerra fredda”) non abbia abbandonato le proprie aspirazioni da superpotenza e continui a contrastare la premiership americana.

Anzi, la Russia di Putin sta gradualmente espandendo la propria sfera d’influenza non solo nell’area di quello che era l’impero sovietico ma anche in Medio Oriente e in Africa, dalla Libia al Sudan, dove Mosca ha recentemente aperto una base navale.

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L’Unione Europea, invece, non viene da molti americani riconosciuta in quanto entità politica a sé stante e ne viene ignorato il potenziale economico in quanto non supportato da una politica autonoma mentre le nazioni ad essa aderenti vengono di norma considerati quali entità singole.

Paesi che oltreoceano sono spesso percepiti come “alleati” pigri e timorosi, che troppo a lungo si sono arricchiti beneficiando della sicurezza fornitagli “gratis” dallo scudo americano e che oggi, invece di mostrare la propria riconoscenza, si tirano indietro quando dovrebbero schierarsi con lo Zio Sam nel contrastare Pechino o Mosca. Insomma, gli europei sono percepiti come alleati che dovrebbero sempre supportare gli USA (anche in campo commerciale) nei suoi contenziosi con Cina e Russia.

La Russia non rappresenta la minaccia maggiore per “l’impero americano” ma è l’obiettivo contro il quale mediaticamente è più facile convogliare la reazione dell’elettorato statunitense. Era facile prevedere che i rapporti tra USA e Russia sarebbero divenuti significativamente più tesi con la nuova amministrazione.

I Democratici USA hanno ripetutamente insistito in campagna elettorale sull’esigenza di contrastare Mosca, che veniva condannata per l’annessione della Crimea nel 2014, per il supporto fornito alle popolazioni russofone in Ucraina e ad Assad in Siria, nonché per vari attacchi cibernetici nei Baltici e negli USA attribuiti ad hacker russi.

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Soprattutto, però, si è insistito sul supporto che Mosca avrebbe fornito alla sconfitta di Hillary Clinton alle elezioni presidenziali del 2016 e su presunte ingerenze russe nelle elezioni americane del 2020.

Queste ultime, se reali, sarebbero risultate evidentemente senza successo.  Un rapporto del National Intelligence Council, organo che riunisce le varie agenzie USA del settore, sembrerebbe aver confermato tali ingerenze.  Rapporto che, peraltro, potrebbe benissimo essere stato “addomesticato” ad hoc: non sarebbe la prima volta.

È evidente che colpire Putin costituisca un modo indiretto per colpire Trump (che stranamente, invece, è stato il presidente statunitense che ha imposto le sanzioni più severe alla Russia dopo la fine della guerra fredda). Infatti, sin dalla campagna elettorale del 2016 i Democratici hanno sempre tentato di rappresentare Trump come troppo legato a Mosca.

In questo contesto era sicuramente prevedibile anche la forte reazione dell’amministrazione Biden al mancato rispetto dei diritti umani in Russia (presunto o reale che sia) e quella molto forte di fronte al caso Naval’nyj.

Ciò nonostante, il modo in cui Biden si è espresso nei confronti di Putin il 16 marzo nel corso di un’intervista (definendolo “assassino”) è un qualcosa che non ci si sarebbe aspettati.

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Difficile credere che l’anziano presidente sia incorso in una leggerezza non premeditata sotto la pressione dell’intervistatore o in una delle tante gaffes che gli oppositori domestici gli attribuiscono. Più probabile che quello fosse esattamente il messaggio che Biden intendesse mandare.

Un messaggio diretto non tanto a Mosca, ma in primis all’interno degli USA e, in seconda battuta, ai partner europei. Il messaggio diretto al pubblico interno USA intende rimarcare che il Presidente, nonostante i modi gentili e aristocratici, sa essere forte e determinato quando serve e intende difendere gli interessi e i valori americani nei confronti del “nemico“ russo. Infatti, Biden ha probabilmente bisogno di “nemici esterni” per rinsaldare la propria posizione personale, che appare relativamente debole nei confronti della sua stessa amministrazione, polarizzata dall’immagine sicuramente più accattivante di Kamala Harris.

Amministrazione in cui gli attori principali per le relazioni esterne (il Segretario di Stato Tony Blinken, il National Security Advisor Jacob J. Sullivan e il Direttore della CIA William J. Burns) sono legati tanto a Obama che ai Clinton e non vengono percepiti come uomini “suoi”.

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Inoltre, Biden potrebbe aver bisogno di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica domestica da questioni che non stanno andando come si era fatto sperare in campagna elettorale.

Ad esempio, riguardo al problema migratorio, un tema che sembrerebbe essergli decisamente sfuggito di mano, con un passo indietro rispetto all’illusione venduta a tutta l’America Latina che, con la nuova amministrazione, le porte degli USA sarebbero state “aperte” e che i tanto deprecati “muri” di Trump sarebbero stati solo un amaro ricordo.

Campo questo in cui, per motivi opposti, né i repubblicani né la sinistra Dem sono disponibili a fargli sconti. Teniamo conto che nel mese di febbraio il numero di  “latinos” fermati per tentato ingresso illegale negli USA è  più che triplicato rispetto a febbraio 2020 e che adesso devono essere addirittura affittati hotel dove alloggiare (si ignora per quanto tempo) migliaia di migranti illegali giunti alla frontiera speranzosi di poter facilmente avere accesso ai ricchi ed accoglienti USA.

D’altronde, non si può fare una campagna elettorale in cui si demonizza la politica anti-migratoria dell’avversario promettendo una radicale discontinuità senza rendersi contro che il messaggio è stato percepito nell’intera America Latina come un invito a raggiungere gli States e come un’imminente apertura delle frontiere.

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Peraltro, con quell’intervista Biden, è possibile che Biden volesse rivolgersi anche agli “alleati” europei per indurli a raffreddare drasticamente qualsiasi rapporto con Mosca. Rapporti che Washington percepisce come un ambiguo mantenere il “piede in due staffe”. Pertanto, il messaggio da mandare al Vecchio Continente sembra essere un imperioso (sia pur subliminale) “o con noi o contro di noi”.

Era noto che l’amministrazione Biden ritenesse troppo timide e troppo dialoganti le posizioni assunte da alcuni partner europei in relazione alla crisi russo-ucraina o in relazione alle conseguenti sanzioni economiche anti-russe (che pesantemente danneggiano l’export di alcuni paesi europei, tra cui l’Italia).

Inoltre, in perfetta continuità con le amministrazioni Obama e Trump, resta l’assoluta contrarietà USA al progetto Nord Stream 2, la cui realizzazione avrebbe effetti economici molto favorevoli per la Germania e per molti paesi europei dipendenti dall’importazione di gas.  Anche su questo settore Washington vuole mandare il messaggio che qualsiasi dialogo con Mosca verrà percepito e sanzionato, cosa che ci riguarda da vicino perché i tre principali destinatari di questo richiamo all’ordine potrebbero essere Germania, Francia e Italia.

Peraltro, potrebbe esserci anche il problema del vaccino Sputnik V, cui alcuni paesi europei hanno incominciato a guardare anche come alternativa ai vaccini di produzione occidentale (Pfeiffer, Moderna, Janson) di cui vengono lamentate carenze.  Il messaggio, in questo caso, parrebbe essere che non ci si può fidare di un vaccino prodotto da un regime dittatoriale retto da un “killer” che non esita a far avvelenare i propri oppositori.

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Infine, Washington ha l’esigenza di chiamare a raccolta gli europei sia per contrastare la crescente credibilità che la Russia sta acquisendo come potenza di riferimento nel Mediterraneo Allargato sia per indurre gli europei a supportare militarmente le iniziative militari a stelle e strisce nella regione (ad esempio con un consistente rinforzo dei contingenti europei in Iraq, come annunciato dopo il recente incontro dei Ministri della Difesa della NATO del 17 e 18 febbraio scorsi).

La Russia, invece, non sembrerebbe essere stata colta di sorpresa dalla recente sortita di Biden (anche perché questa giunge dopo un’escalation di esternazioni molto critiche nei confronti di Mosca) e ha colto l’occasione per rispondere con calma olimpica evidenziando come tali esternazioni fossero il sintomo di una “crisi isterica” attribuibile alle cocenti contraddizioni di una società (quella americana) che secondo la narrativa  di Mosca avrebbe  abbandonato tutti quei valori che sono un riferimento per la società russa, mentre le attuali leadership democratiche sarebbero  frustrate dal constatare la propria debolezza.

La Cina rappresenta invece per Washington un problema ben più spinoso. Non solo Pechino è oggi il primo partner commerciale della quasi totalità dei paesi dell’Indo-Pacifico (inclusi alcuni membri del QUAD (l’intesa tra USA, India, Giappone e Australia), ma ha sostituito gli USA anche come primo partner commerciale di molti paesi Europei.

Inoltre, i timori di un attacco militare cinese contro Taiwan appaiono sempre più concreti specie dopo che Pechino ha potuto constatare che per Hong Kong l’Occidente si è limitato solo ad esprimere sterili condanne. La capacità militare del Dragone è sicuramente in grado di dare speranze al sogno di “una sola Cina”.

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Inoltre, la costante accresciuta aggressività della politica estera cinese nell’Indo-Pacifico e in Africa non può essere ignorata. Pechino ritiene che le “deboli democrazie occidentali” non saranno in grado di opporsi alla vision geopolitica cinese e, come diceva Sun Tzu, il Dragone mira a “vincere senza combattere“.

In questo contesto, il 17 e 18 marzo ha avuto luogo ad Anchorage (in Alaska) il primo incontro ufficiale tra l’amministrazione di Biden e quella di Xi Jinping. Un incontro definito in termini diplomatici “franco e sincero”. Tradotto in linguaggio di tutti i giorni: la discussione è stata accesa con reciproco scambio di accuse e forse anche di offese. Era prevedibile, anche perché l’incontro di Anchorage serviva a preparare il terreno a un incontro tra i “Numeri Uno”. Saranno poi loro a disinnescare i contenziosi importanti.

Da parte sua, Washington ha l’impellente esigenza di ristabilire un credibile ruolo USA nell’Indo-Pacifico e rassicurare le nazioni della regione che temono sempre di più l’arroganza e la crescente espansione cinese.  Dopo aver criticato l’approccio esclusivamente bilaterale di Trump nel gestire i rapporti con la Cina, Biden dovrebbe convogliare a suo favore i paesi dell’Indo Pacifico (tutti o quasi con importanti legami commerciali con Pechino e, al tempo stesso, impauriti dalle sue crescenti capacità militari). Per fare ciò l’amministrazione Biden deve dimostrarsi forte, credibile e convincere che non sarà così accondiscendente con Xi Jinping come lo era stato Obama.

In questo contesto, Washington sta investendo sul QUAD per farne il fulcro del contrasto alla Cina nell’Indo-Pacifico. Anche il tentativo di coinvolgere tali Paesi in una campagna vaccinale anti-Xovid a guida statunitense e con vaccini forniti dagli USA rientra nella politica di contenimento di Pechino (e dei vaccini cinesi).

Analogamente, è scontato che Pechino, la cui dipendenza dai combustibili fossili è in continuo aumento, non possa non percepire come una manovra anti-cinese il rinnovato slancio che gli USA di Biden stanno imprimendo (anche in vista del Summit di Glasgow sul clima in autunno) alla politica di contenimento mondiale delle emissioni.

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Per questo motivo, probabilmente, il team statunitense guidato da Blinken non si è limitato alla trattazione dei contrasti commerciali tra i due paesi e si è spinto a toccare molti temi estremamente sensibili per Pechino, quali il rispetto dell’indipendenza di Taiwan, i diritti dei cittadini di Hong Kong, quelli delle popolazioni islamiche Uighuri dello Xinjiang, fino alle accuse per attacchi cibernetici contro interessi statunitensi.

Come prevedibile, la delegazione cinese (guidata da Yang Jiechi e da Wang Yi) ha reagito duramente, ha diffidato Washington dall’interferire negli affari interni cinesi e ha richiesto il reciproco rispetto (ovvero, il reciproco riconoscimento come “superpotenze” paritetiche).

Di fatto, ad Anchorage ognuna delle due parti ha voluto riaffermare il proprio ruolo dominante. La Cina, conscia della sua forza economica e militare, non pare disposta ad accettare “lezioni” da un’America che viene percepita atteggiarsi da “maestrina” sulla base di una asserita “supremazia” morale e geopolitica non riconosciuta da Pechino.

Comunque, il fatto che la squadra USA abbia voluto toccare tasti estremamente sensibili per Pechino, in merito ai quali si sapeva che non vi fossero possibilità di discussione, potrebbe indurre a ritenere che il tutto sia stato preordinato al fine di provocare la reazione della delegazione cinesi (come di fatto avvenuto) e lanciare all’Europa il messaggio che con Pechino non vi sia possibilità di dialogo.

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In quest’ottica, i recenti accordi commerciali sottoscritti da UE e Cina devono essere risultati particolarmente indigesti a Washington.

In conclusione, l’imposizione di dazi alla Cina e di sanzioni alla Russia hanno ulteriormente esacerbato i rapporti dei due paesi con gli USA. D’altronde i due paesi hanno già mandato agli USA segnali di una possibile cooperazione tra loro anche in campo militare (ricordiamo le imponenti esercitazioni congiunte russo-cinesi Vostok 2018 e Joint Sea 2019).

Per entrambe le super potenze, l’insistenza dell’amministrazione Biden sui diritti civili e sui valori democratici (intesi alla maniera “occidentale”) rappresenta non solo un’intollerabile ingerenza in affari interni, ma anche una minaccia al loro sistema di potere e alle loro forti leadership personalistiche. Per entrambe, il competitor geopolitico principale resta Washington, di cui Mosca mal supporta il ruolo in Europa e nel Mediterraneo Allargato, mentre Pechino è disturbata dall’attivismo a stelle e strisce in Asia e nell’Indo-Pacifico.

Russia e Cina potrebbero essere per molti versi tra loro complementari. La Russia dispone di risorse naturali e di capacità militari testate sul campo. La Cina dispone di ingenti capitali, grandi capacità produttive, e crescenti capacità tecnologiche e militari per ora non testate sul campo.

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L’attuale co-operazione russo-cinese è in gran parte il risultato della pressione posta dagli USA su questi due paesi e si è recentemente sviluppata nei settori della sicurezza, dell’energia (anche in campo nucleare) e dell’esplorazione spaziale. Se gli USA inducessero Cina e Russia a una collaborazione strategica più strutturata, ciò potrebbe rappresentare un problema anche per l’Europa.

Il confronto appare essere tra tre superpotenze che comprensibilmente perseguono   ognuna i propri interessi che di volta in volta possono sicuramente coincidere con quelli europei (specie quelli americani), ma che restano prioritariamente interessi geopolitici e commerciali di Washington, di Pechino e di Mosca.

Per non finire schiacciata in questo confronto o limitarsi al ruolo di portatrice d’acqua per altri, l’Europa dovrebbe essere in grado di parlare con una sola voce autorevole. Purtroppo, i tempi non sembrano ancora maturi.

Insomma, il rischio che in questa accanita partita a bridge degli USA contro la smaliziata coppia russo-cinese, il ruolo del “morto” toccasse proprio alla vecchia Europa.

Immagini: Liu Rui/Global Times, Casa Bianca, Cremlino e South China Morning Post

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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